Mentre le banche centrali di tutto il mondo continuano a sostenere per quanto possibile i mercati ed anzi hanno in queste ultime settimane ulteriormente tagliato i tassi e annunciato riacquisti di bond sul mercato tanto da far temere che una bolla speculativa sia ormai davvero in formazione, proprio come conseguenza della liquidità pompata prepotentemente dalle banche centrali stesse, gli italiani non se ne accorgono perché il credit crunch continua sia nei confronti delle imprese sia delle famiglie tanto che, secondo un’analisi effettuata da Facile.it e Prestiti.it su oltre 20.000 richieste di prestito personale presentate in Italia negli ultimi 6 mesi, sono sempre di più gli italiani che si indebitano anche per il loro matrimonio.
La percentuale delle domande di prestiti finalizzati a matrimonio e cerimonie è infatti aumentata del 41% rispetto al 2011 e rappresenta ormai il 2,4% del totale nazionale. Si noti peraltro come l’importo medio richiesto sia di soli 9.000 euro (contro i 16.000 mediamente richiesti nel 2011), con una forte differenziazione su base territoriale: una richiesta ogni 6 arriva dalla Campania (che da sola rappresenta quasi il 16,7% del totale), con un importo medio di 8.970 euro, mentre la Lombardia pesa il 14,7% del totale nazionale (con un importo medio di 9.020 euro) e la Sicilia il 10,8% (importo medio di 8.440 euro), mentre da Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Molise e Valle d’Aosta proviene meno dell’1% delle domande totali (per importi non significativi), con gli importi maggiori che vengono richiesti nel Lazio (12.570 euro), in Calabria (11.700 euro) e in Puglia (10.450 euro).Da notare come nonostante si chiedano importi meno consistenti che due anni or sono, il piano di restituzione resta su tempi abbastanza ampi, articolandosi mediamente in 58 rate mensili (poco meno di 5 anni), che in alcune regioni arrivano a sfiorare i 6 anni (nel Lazio la media è di 69 rate, in Calabria di 68).
Non c’è del resto da stupirsi: gli stimoli ampiamente immessi nel sistema dalla Bce, dalla Federal Reserve, dalla Bank of Japan piuttosto che dalla Bank of England non sono ancora stati in grado di arrivare all’economia reale e sono riusciti solo a comprare tempo evitando il definitivo collasso dei mercati del credito e dando modo da un lato alle banche di svuotare almeno in parte i portafogli dei crediti deteriorati (che peraltro continuano a correre, specie in Europa, a causa della crisi) e di uscire dalle attività più a rischio (come negli Usa, dove sono i fondi hedge che da tempo assumono ex funzionari e trader di banca per rafforzare i propri staff, ad esempio nella rischiosa ma lucrosa attività di trading su strumenti di debito), dall’altro agli emittenti sovrani del Sud Europa (Italia in primis) di non collassare ulteriormente, vedendo anzi un primo significativo recupero delle quotazioni dei titoli di stato (cosa che fa bene anche ai bilanci delle banche, pieni di Btp e Bonos).
Così la crisi ha continuato a mietere vittime e se le famiglie si indebitano anche per le cerimonie di matrimonio, le imprese chiudono addirittura i battenti. Andando avanti di questo passo secondo Rete Imprese nel 2013 si avranno “26,6 miliardi in meno di Pil, 22,8 miliardi in meno di consumi, 249 mila chiusure della attività commerciali e dell’artigianato” con conseguente perdita tra i 400 e i 650 mila posti di lavoro entro la fine dell’anno, quando rispetto al 2007 l’ex “Belpaese” avrà perso 121 miliardi di Pil (equivalenti a una sessantina di miliardi di minori entrate fiscali). Che fare? Secondo gli imprenditori italiani occorre recuperare rapidamente competitività, perché secondo l’analisi Cer-Rete Imprese Italia, tra il 2007 e il 2013, la competitività italiana è già calata del 5,2% mentre quella tedesca, nello stesso periodo, è salita di un ulteriore 6%, ampliando ulteriormente il divario tra i sistemi produttivi dei due paesi.
Per ripartire secondo il presidente di Rete Imprese Italia, Carlo Sangalli, occorrerà bonificare la spesa rafforzando il processo di controllo, riqualificazione e riduzione della stessa, contrastare in modo più efficace l’evasione e l’elusione fiscale, ridurre il cuneo fiscale e contributivo sul costo del lavoro, cercando nuove risorse non con ulteriori aumenti delle tasse ma tramite la dismissione del patrimonio pubblico. Impresa peraltro improba e dagli esiti spesso molto inferiori alle attese già in tempi di sviluppo, figuriamoci in piena crisi, ma tant’è. Al vostro analista non resta che far notare come scorrendo i numeri di Eurostat appaia evidente la cattiva distribuzione della pressione fiscale italiana in assoluto e rispetto agli altri paesi europei. Nel 2011 (ultimo dato disponibile) se le tasse sulla proprietà erano pari al 2,1% del Pil (poco più di 33 miliardi), le tasse sui consumi erano già pari al 17,4% (con la sola Iva, ancora da aumentare, che con 98,6 miliardi di incassi pesava il 6,2% del Pil), le tasse sul capitale al 33,6% del Pil e le tasse sul lavoro al 42,3%.
Indovinate dove sarebbe saggio andare a ridurre il peso del fisco e dove potrebbe esserci spazio per eventualmente ritoccare le aliquote al rialzo, considerando che nel 2000, ultimo anno di crescita “sostenuta” del Pil italiano (+3,7% reale, tasso mai più toccato nel decennio successivo) le tasse sulla proprietà rappresentavano l’1,9% del Pil, quelle sui consumi il 18,3%, quelle sul capitale il 28,1% e quelle sul lavoro il 42%? Peccato che sotto la pressione del Pdl il governo Letta sembri incapace di andare oltre al rinvio della prima rata Imu da giugno a settembre (solo per la prima casa), in attesa di definire meglio una “manovrina” da 7-8 miliardi entro giugno che ridurrebbe l’Imu sulla prima casa, prorogherebbe le detrazioni fiscali sulle ristrutturazioni edilizie e farebbe slittare l’aumento dell’Iva dal 21% al 22% finora previsto per luglio, aumentando le tasse sull’energia (occhio alla bolletta) e studiando nuovi tagli alle spese dei ministeri. Non proprio quelle riforme strutturali di cui l’Italia avrebbe bisogno e se il buon giorno si vede dal mattino…