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Opinioni

La crescita non è un diritto acquisito

Standard & Poor’s minaccia di tagliare il rating di 15 paesi di Eurolandia, perchè i problemi di fondo restano immutati. La crescita rischia di rimanere a lungo un miraggio.
A cura di Luca Spoldi
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Standard&Poor's

Che una mossa così “politica” come quella di mettere in “creditwatch” con implicazioni negative il rating di 15 stati membri di Eurolandia (in pratica tutti esclusa la Grecia) con la possibilità del taglio di un “notch” dei rating di Germania, Austria, Belgio, Finlandia, Olanda e Lussemburgo e di due per tutti gli altri (e dunque per Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Estonia, Slovenia, Slovacchia e Malta) solo due giorni prima dell’eurovertice di Bruxelles dell’8 e 9 dicembre prossimo potesse scatenare nuove polemiche su Standard & Poor’s e sulle agenzie di rating in generale era prevedibile e infatti subito si sono levati vari lamenti e prese di posizione da parte di numerosi esponenti politici e finanziari europei. Ma è colpa del dito che punta alla Luna se la Luna esiste?

Se il “timing” può essere sospetto (ma lo è davvero dopo quasi due anni di continui rinvii e “annunci” di soluzioni parziali da parte delle autorità europee?), le cause citate dall’agenzia americana sono tutto meno che non condivisibili. Secondo gli esperti di S&P’s a mettere a rischio l’affidabilità degli emittenti sovrani europei (ossia, tra le righe, a rendere meno improbabile eventuali “haircut” di altri debitori oltre ad Atene, che già ha chiesto ai bondholder privati di accettare una decurtazione “volontaria” del 50% del valore nominale dei titoli sottoscritti) vi sono in particolare: il rischio di un ulteriore irrigidimento delle condizioni del credito, che potrebbe sembrare alle banche la strada più conveniente per mettere sotto controllo i coefficienti patrimoniali (per loro natura dati dal rapporto tra capitale “di qualità” e asset a rischio e dunque migliorabili o agendo sul numeratore, con aumenti di capitali o aiuti di stato, o sul denominatore, vendendo titoli e stringendo il credito); più elevati premi per il rischio su un numero crescente di sovrani europei (a riprova che chi ha valutato e forse sperato di risolvere la crisi con l’espulsione di qualche “periferico” non ha capito che la crisi avrebbe finito con l’investire l’intero continente europeo); continue divergenze tra le autorità europee su come recuperare rapidamente la fiducia dei mercati (il che dopo appunto quasi sua anni di battibecchi è un’affermazione quasi lapalissiana); elevati livelli di indebitamento pubblico e privato in vasta parte di Eurolandia; un crescente rischio di una recessione per l’intera Eurolandia nel 2012 (rischio per modo di dire visto che molte economie europee, tra cui quasi certamente l’Italia, sembrano essere entrate in recessione già in quest’ultimo trimestre e che la stessa Germania sta rallentando il passo potendo contare solo sulle esportazioni, a loro volta a rischio se lo scenario peggiorasse a livello mondiale).

Certo, molto dipenderà anche da cosa emergerà dalla riunione delle autorità europee in programma l’8 e il 9 dicembre prossimi (e dall'eventuale taglio dei tassi che la Bce potrebbe annunciare il 7 dicembre), ma il problema da settimane non cambia: l’Efsf, il fondo “salva stati” europeo (che a sua volta potrebbe vedersi ridotto da S&P's il rating di "AAA"), non ha risorse sufficienti al momento se non per garantire, al più, un 20% del debito pubblico italiano, non ci sono certezze sul suo eventuale ulteriore potenziamento, la Germania continua a non volere gli Eurobond (il che è forse comprensibile visto le cattive prove che hanno dato i “periferici” circa la capacità di attuare politiche di bilancio rigorose, ma è tatticamente sbagliato al momento e rischia di portare a manovre come e peggio di quella, peraltro necessaria, varata dal governo Monti in cui il sostegno alla crescita resta poco più che un auspicio a fronte di pesanti incrementi d’imposta il cui effetto netto non può che essere depressivo sull’economia), tanto meno si parla di un ruolo di prestatore d’ultima istanza per la Bce (come invece è nel caso della Federal Reserve). Tutti dovrebbero cooperare per trovare una soluzione comune, ma il rischio di un ennesimo fallimento resta elevato (e la prevedibile reazione dei mercati violenta): sostiene del resto Maurizio Piglia, che di mestiere fa il gestore di fondi pensione ed è abituato a considerare scenari di lungo periodo: “Mi pare che si stia girando attorno al problema. L’alternativa del diavolo è fra la servitù della gleba di una depressione innescata da un’austerity peraltro inutile a ripagare un debito irripagabile, la perdita di sovranità anche fiscale e non solo monetaria o una depressione di una durata prevedibile forse decennale”. Una “lost decade” alla giapponese che sembra la strada cui è rassegnato lo stesso governo Monti che per ora promette (ma ancora non vara) provvedimenti idonei a sostenere la crescita e di far pagare l’ennesimo aumento dell’imposizione fiscale anche a chi più ha beneficiato di anni di crescita progressivamente in calo a fronte di uno stato progressivamente sempre più “disattento” sul fronte dell’evasione, col rischio nel frattempo che a pagare siano sempre i soliti.

L’alternativa di un’uscita dall’euro del resto è di fatto impraticabile, dato che comporterebbe una svalutazione della moneta “nazionale” di ritorno di un 30% rispetto all’euro, un taglio del debito tra il 35% e il 40% (incluso il debito sottoscritto dai fondi pensione italiani e dalle banche), il fallimento (o la rinazionalizzazione) di una buona parte del sistema bancario e una crisi durissima per almeno 2 o 3 anni in pieno “stile Argentina” in cambio della teorica possibilità di essere padroni della propria rinascita. Teorica, perché se non vi sarà quel cambiamento culturale che continuo a invocare, non credo che la “classe dirigente” del Paese, finora distintasi più per corruzione, sprechi, clientelismo e burocrazia che per capacità di gestione, riuscirebbe a trasformarsi in un modello di virtù e a gestire al meglio la “rinascita” del Paese.

Purtroppo la crescita degli ultimi 12 anni, commenta ancora Piglia, “era solo un gigantesco schema di Ponzi tra Nord e Sud Europa, il Sud Europa che leveraggiava un merito di credito acquisito che non aveva, per accumulare debito a basso costo spenderlo in consumi o bruciarlo in boom edilizi e speculazioni parassitarie, sprechi e corruzione, il Nord Europa che prestava soldi per vendere Cayenne e Mercedes a credito e investiva in una produttività che senza il Sud Europa che consuma si trasformerà in un incubo occupazionale anche lì”. Insomma, la crescita attualmente si nutre del “riequilibrio di risorse in estinzione”, con l’eliminazione contemporanea “di obesi ipernutriti e morti di fame come i due estremi dello stesso problema”, è fatta di sostenibilità, “che vuol dire che chi ha di più dovrà avere di meno”: è la globalizzazione miei cari lettori, che sta facendo grande la Cina, l’India, la Russia e il Brasile ma che mina la stabilità dell’Europa oggi, degli stessi Stati Uniti domani.

Del resto “non ci può essere crescita infinita senza energia illimitata a basso costo ed il petrolio ora è a 100 dollari al barile” (contro i 19 dollari a cui quotava una quindicina d’anni fa quando è iniziata la frenata dell’economia italiana), conclude Piglia: “il problema è che alla gente si è detto che la crescita non solo è infinita, ma è un diritto”. Dover ammettere che non esiste alcun diritto (e che dunque la crescita occorre "guadagnarsela" in qualche modo) temo abbia un costo politico insostenibile, per questo nessun governante in nessun paese occidentale vuole ammetterlo e nessun europeo o americano vuole anche solo starlo a sentire. Standard & Poor’s sembra averlo capito benissimo e aver capito anche i rischi che corrono i finanziatori di uno schema sempre più a rischio di implosione. Personalmente posso solo augurarmi che mentre la politica e i “tecnici” prendono tempo (e sperabilmente si modifica la cultura e l’etica di chi gestisce la cosa pubblica), la tecnologia riesca a soccorrerci: peccato che l’Italia in tecnologia e innovazione non sia esattamente un paese all’avanguardia.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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