Ricostruire il processo che ha creato l'attuale situazione (e la solita, inutile, cristallizzazione delle posizioni) per quanto concerne le norme in materia di cittadinanza è operazione complessa e necessariamente lunga. Anche perché resta arduo catalogare in maniera organica la miriade di iniziative e di interventi in materia, in un senso e nell'altro. Tuttavia, di una certa rilevanza appare il raffronto fra quella che è la normativa vigente e l'ultima proposta organica di modifica, dalla quale sostanzialmente partirà il tentativo di riforma del neo ministro per l'integrazione Cecile Kyenge.
Al momento la legge in vigore è la n.91 datata 5 febbraio 1992, con le successive modifiche apportate nel 1994, 1996, 2000 e 2006 che non ne hanno cambiato le parti essenziali. Dunque, secondo il testo:
È cittadino per nascita:
a) il figlio di padre o di madre cittadini;
b) chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.
2. È considerato cittadino per nascita il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza.
[…] Art.4 – Lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data.
L'ultima proposta di modifica di una certa rilevanza è stata quella presentata in Commissione dal democratico Bressa, che prevedeva:
Al comma 1 dell'articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono aggiunte, in fine, le seguenti lettere:
«b-bis) chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno sia residente legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno cinque anni;
b-ter) chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno sia nato in Italia e ivi legalmente risieda, senza interruzioni, da almeno un anno».
[…] l comma 2 dell'articolo 4 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituito dai seguenti:
«2. Lo straniero nato in Italia o entratovi entro il quinto anno di età, che vi abbia risieduto legalmente fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dal compimento della maggiore età.
2-bis. Il minore figlio di genitori stranieri acquista la cittadinanza italiana, su istanza dei genitori o del soggetto esercente la potestà genitoriale secondo l'ordinamento del Paese di origine, se ha frequentato un corso di istruzione primaria o secondaria di primo grado ovvero secondaria superiore presso istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione di cui all'articolo 1, comma 1, della legge 10 marzo 2000, n. 62, e successive modificazioni, ovvero un percorso di istruzione e di formazione professionali idoneo al conseguimento di una qualifica professionale. Entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, il soggetto può rinunciare, se in possesso di altra cittadinanza, alla cittadinanza italiana.
2-ter. Il minore di cui al comma 2-bis, alle medesime condizioni ivi indicate, diviene cittadino italiano ove dichiari, entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, di voler acquistare la cittadinanza italiana»
Modifiche mai accolte in Commissione Affari Costituzionali della Camera, fino a luglio 2012 quando, come ricorda Andrea Sarubbi dalle pagine del suo blog, "il Pdl decise di non accogliere l’ultima offerta del Centrosinistra. Il relatore di minoranza, il democratico Bressa, aveva proposto di accantonare la discussione sugli adulti, fonte di divisioni più profonde, e di limitarsi a uno stralcio: ne veniva fuori una brevissima legge, di un solo articolo, che estendeva la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia o arrivati da piccoli, legandola a una certa stabilità del nucleo familiare o alla scuola". A questo si aggiunge la proposta di legge già presentata dal Partito Democratico in avvio di legislatura e che contempla la cittadinanza per chi "nasce in Italia con almeno un genitore residente da cinque anni e il minore che arriva nel paese e conclude almeno un ciclo scolastico (elementari, medie, superiori o formazione professionale)".
Ecco, un buon modo per deideologizzare il dibattito potrebbe essere questo: capire di cosa stiamo parlando. Perché è evidente che fintanto che la querelle sarà sullo ius soli "puro" il rischio è quello di uno stallo che ha conseguenze drammatiche. Perché di questo si tratta, del un vero e proprio dramma di migliaia di persone di origine straniera. Basti solo questo breve passaggio della campagna per i diritti di cittadinanza "L'Italia sono anch'io": "Al 1 gennaio 2010 i cittadini stranieri residenti nati in Italia sono ormai 572.720, il 13,5% del totale dei residenti stranieri. Molti di loro non hanno mai conosciuto il paese di origine dei genitori; hanno forme e stili di vita del tutto simili ai coetanei italiani, sono a tutti gli effetti parte integrante della nostra società ma non hanno acquisito la cittadinanza italiana alla nascita in quanto non previsto dalla legislazione vigente".
Dunque di cosa parliamo? Parliamo di riconoscere la cittadinanza ai figli degli stranieri residenti in Italia che abbiano maturato determinati requisiti. Parliamo di riconoscere la cittadinanza agli stranieri di seconda, terza generazione che vivono "da sempre" sul nostro territorio e che non si capisce in ragione di quale assurdità concettuale non possono dirsi italiani. Parliamo, per dirla con le parole di Antonio Menna su Fanpage, del fatto che: "Sono nati qui. Vanno a scuola qui. Non sono stati in nessun altro Paese. Sono italiani". Prima ancora che di una riflessione su motivazioni di carattere ideologico o politico (che pure sarebbe auspicabile, in nome di quel progresso del vivere civile che dovrebbe essere alla base di ogni democrazia), vi è la necessità di colmare una lacuna del diritto. E la cittadinanza è un diritto.