Colpo di scena, anche se in parte preannunciato da dati macro che da settimane hanno continuato a risultare peggiori delle attese: la Cina svaluta lo yuan portando il cambio ufficiale nei confronti del dollaro a 6,2298 (-1,9%), “una misura una tantum” ha subito precisato la banca centrale cinese, che di fatto la allinea alla posizione finora tenuta dalle banche centrali occidentali che in questi anni hanno proceduto a portare i rispettivi tassi ufficiali attorno a zero, ovvero a renderli negativi in termini reali, varando poi programmi di “quantitative easing”, ossia di acquisto di bond sul mercato, che hanno contribuito a indebolire tanto il dollaro e la sterlina, inizialmente, quanto l’euro, poi.
Pechino, che come altri paesi emergenti continua a crescere a velocità irraggiungibili per i paesi sviluppati (7% ufficialmente, anche se alcuni ritengono il dato falsato e parlano di una velocità più vicina al 4%) ma modesti per la sua storia, aveva finora abbozzato: la crescita della borsa e una politica di investimenti che mirava a sostituire il “tradizionale” motore dell’export con un sostegno alla domanda interna apparivano sufficienti a compensare il calo (relativo) del sostegno alla crescita dato dalle esportazioni. Ma la strategia ha mostrato qualche limite: il credito facile ha gonfiato pericolosamente sia le quotazioni immobiliari (che hanno poi iniziato a calare dopo il varo di criteri più rigidi di erogazione del credito) sia le quotazioni borsistiche. Queste ultime hanno continuato a correre sino a metà anno, poi ad inizio estate è partita una prima correzione che ha fatto correre ai ripari le autorità, tornate a ridurre i tassi e ad allentare la “stretta” creditizia ed ora anche a indebolire la valuta per rilanciare l’export.
La manovra, che secondo l’agenzia Bloomberg è la più ampia degli ultimi 20 anni, dovrebbe da un lato rilanciare l’export, dall’altro contribuire a frenare le importazioni e questo potrebbe causare qualche contraccolpo per quei paesi, come la Germania in particolare, che sembravano puntare proprio sulla Cina come nuovo mercato di sbocco di riferimento con cui, gradualmente, sostituire l’attuale area di riferimento delle proprie esportazioni (l’Unione europea). Al tempo stesso il rischio che quella di Pechino sia solo la prima di una serie di svalutazioni “competitive” in Asia (dove già si erano notati gli indebolimenti del dollaro australiano, di quello di Singapore e del won coreano) non può essere escluso come non si può non notare che la mossa cinese giunge alla vigilia di una mossa di senso opposto che la Federal Reserve si prepara ad attuare.
A metà settembre, infatti, gli Stati Uniti dovrebbero per la prima volta da oltre sette anni rialzare i tassi di interesse, che appunto dal 2009 sono fermi nel corridoio di 0-0,25%. Negli States, del resto, la crescita appare consolidata e sebbene la modesta forza di paghe e salari lasci intendere che almeno per un altro anno l’inflazione non sarà un problema, l’era del denaro facile si appresta a terminare. Sempre che la mossa di Pechino non induca Janet Yellen, numero uno della Federal Reserve, ad avere ulteriore pazienza per capire se il rafforzamento del dollaro (che verosimilmente avverrà anche contro euro, yen giapponese e sterlina britannica, visto che nessuna altra banca centrale sembra intenzionata ad alzare i tassi, o interrompere il quantitative easing, tanto presto) non possa in qualche modo rendere la ripresa a stelle e strisce meno solida.
A subire qualche ulteriore contraccolpo a seguito della decisione cinese rischia di essere anche il settore delle materie prime. Già in crisi per il braccio di ferro che da tempo sta tenendo le quotazioni petrolifere sotto i 50 dollari al barile (e con la prospettiva di un ulteriore indebolimento, visto che l’Opec il mese scorso ha segnato il record produttivo degli ultimi tre anni, con 31,5 milioni di barili pompati ogni giorno, 100.700 in più di un mese prima, complice il ritorno sui mercati dell’Iran dopo l’accordo sul nucleare che ha rimosso le sanzioni internazionali contro Teheran), il settore delle materie prima rischia ora di vedere un calo della domanda cinese a causa di prezzi che, espressi in yuan, saranno ora più cari mentre la domanda resta di per sé non esuberante come qualche anno fa.
Nel caso di materie come l’acciaio l’impatto si andrà a sommare a una situazione preesistente di sovrapproduzione e potrebbe portare alla chiusura di qualche impianto. Ugualmente negativo, almeno nel breve termine, potrebbe essere l’impatto sulle produzioni di carbone, rame ma anche grano e granturco. Tutto questo dovrebbe portare ad un ulteriore calo delle quotazioni di materie prime, granaglie e forse metalli preziosi. Se volete non si tratta di altro che del “girone di ritorno” della bolla creatasi sulle quotazioni delle materie prime (e dell’oro) nel 2011 e poi già minata dall’annuncio della Federal Reserve (all’epoca guidata da Ben Bernanke) del giugno 2013 relativo all’avvio, di lì a qualche mese, del “tapering”, ossia della fine “morbida” del quantitative easing americano. Questa stessa dichiarazione iniziò a far traballare i mercati finanziari della Cina, dell’India e degli altri principali mercati emergenti.
A distanza di due anni la frenata che questo annuncio ha causato alla crescita economica di Pechino appare consistente al punto da dover essere bilanciato da una contromossa cinese, appunto quella relativa al cambio yuan/dollaro. E il gioco ricomincia: tra un paio d’anni sarà la Fed a bloccare la sua “normalizzazione”? Con una massa di debito che in tutto il mondo supera ampiamente i 200 mila miliardi di dollari (mentre il Pil mondiale non arriva a 75 mila miliardi di dollari) potrebbe essere inevitabile, anche se questo continuo “gonfiare la bolla” per rinviare al futuro la definitiva messa in sicurezza del sistema finanziario mondiale rende intrinsecamente più rischioso il sistema stesso. Per il momento, tuttavia, dalla benzina al pane sono molti i beni che potrebbero arrivare a costare meno anche sui mercati italiani, indirettamente sostenendo la ripresa italiana. Speriamo bene.