Circe porta temporali in tutta Italia, ma il vero finimondo si scatena sui mercati finanziari, alle prese con l'inizio di un'estate che facilmente avevo previsto turbolenta quanto se non più di quella dello scorso anno, con Milano e Madrid nell’occhio del ciclone al mattino e poi in recupero dopo che le rispettive autorità di mercato hanno bloccato ogni vendita allo scoperto (in Spagna per tre mesi e verso qualsiasi tipologia di strumento e operazione, in Italia solo per una settimana e solo per i titoli del comparto finanziario) per cercare di calmare i mercati e di porre un freno alla “speculazione”.
Mercati che certo non hanno gradito le voci rimbalzate nel fine settimana sulla stampa tedesca di uno “top” che l’Fmi potrebbe imporre all’erogazione di ulteriori aiuti alla Grecia se il governo di Atene (che sta cercando di ottenere una proroga dei tempi di rientro dal debito e un allentamento delle misure chieste come contropartita degli aiuti erogati dalla “troika” Ue-Bce-Fmi) non si dimostrasse in grado di rispettare gli impegni presi. Voci che l’organizzazione guidata da Christine Lagarde non ha avallato ma non ha neppure respinto ufficialmente, limitandosi a un “no comment”, mentre dalla Commissione Ue fanno notare che eventuali decisioni sull’erogazione delle prossime tranche di aiuti (domani la delegazione della “troika” partirà per Atene per la sua visita periodica) sono da ritenersi “improbabili” prima di settembre.
Non propriamente una tempesta in un bicchiere, visto che se l’approccio “cospirazionista” lascia perplesso il sottoscritto e molti più illustri e validi colleghi che ogni giorno operano sui mercati (c’è chi vede un legame tra i problemi dell’euro e il braccio di ferro in corso tra Barack Obama e Mitt Romney, sfidante repubblicano per la Casa Bianca con un passato ai vertici di Bain Capital, importante gruppo finanziario di Wall Street), se non altro perché anche oggi oltre a tutte le principali borse europee a fare le spese della crescente tensione (legata anche ai timori che oltre alla piccola e ininfluente Grecia possa “saltare” la ben più rilevante Spagna e a seguire il vero “elefante nella cristalleria”, ossia l’Italia) sono tutte le borse mondiali, Tokyo e New York in testa.
Occorre a questo punto ribadire per l’ennesima volta (ne farei a meno volentieri se si notasse qualche segnale di comprensione da parte della classe politica italiana ed europea, totalmente dimostratesi incapaci di intendere e volere nella gestione di questa crisi) che per affrontare i cambiamenti secolari in atto nell’economia mondiale occorreva già da anni aver varato riforme strutturali che restano indispensabili ma ormai dovranno necessariamente seguire e non precedere soluzioni “tattiche” in grado di calmare i mercati, ossia una soluzione unitaria della crisi sotto il profilo della gestione del debito e il contenimento degli spread (con la Bce che probabilmente dovrà buttare il cuore oltre l’ostacolo agendo da prestatore di ultima istanza con risorse illimitate, anche a costo di rischiare uno “strappo” con la Germania e il Nord Europa, o perdere per strada il Sud del vecchio continente) che superi la gestione “per firewall” rivelatasi drammaticamente insufficiente sia per la limitatezza dei mezzi a disposizione sia per la lunghezza e complessità delle procedure di ratifica da parte dei paesi membri di Eurolandia.
Ciò detto ogni crisi porta con sé i germi di qualche potenziale rivoluzione in grado di farci affrontare meglio gli scenari futuri: così non sarà un caso che Mediobanca abbia elaborato un interessante analisi in cui si segnala come alle Fondazioni bancarie che controllano le banche italiane un flusso di dividendi stabili a livelli 2010 potrebbe non bastare “a garantire il livello di erogazioni 2010”. Secondo gli esperti in “due scenari su tre le Fondazioni non sarebbero in grado di difendere il valore reale dei loro patrimoni e sarebbero obbligate o a rimborsare capitale o a ridurre le proprie erogazioni per compensare il rendimento in calo dei loro investimenti”.
Tre le principali alternative che le Fondazioni bancarie italiane paiono avere di fronte per cercare di correggere la situazione: investire in Btp a 10 anni, vendere le partecipazioni bancarie per acquistare partecipazioni in utilities o iniziare a investire come Fondazioni internazionali. Ogni scelta ha pro e contro in riferimento ad alcuni parametri che influenzano l'operato delle Fondazioni: i Btp ottimizzerebbero la liquidità, minimizzerebbero il rischio (posto che la crisi dell’eurodebito rientrasse e non portasse ad un collasso dell’euro, naturalmente, ndr) e fornirebbero flussi di cassa futuri altamente prevedibili, ma avrebbero scarsi collegamenti con le comunità locali in cui operano le Fondazioni. Le utilities massimizzerebbero i flussi di cassa e le erogazioni, mantenendo in qualche misura un legame con le comunità locali. L’opzione di trasformarsi in Fondazioni internazionali ottimizzerebbe il valore, i flussi di cassa e le erogazioni, a spese dei collegamenti con le comunità locali.
Se saremo fortunati (o se avremo banchieri e consiglieri di Fondazioni previdenti) potremmo presto vedere allentato il vincolo, per nulla virtuoso, tra banche e Fondazioni, iniziando ciascuna a fare il proprio mestiere: le prime erogare credito e cercare di far fruttare la raccolta attraverso impieghi remunerativi ma dal rischio gestibile, le seconde distribuire il ricavato delle proprie rendite per promuovere le attività più meritevoli delle rispettive comunità locali. Il tutto adottando le migliori best practices internazionali e aprendosi ad innovazione e sviluppo, senza scaricare il costo di ogni ristrutturazione sulla platea di tristemente “soliti noti” contribuenti italiani.
I quali forse dovrebbero iniziare a chiedersi che senso abbia continuare a mantenere a proprie spese caste politiche, bancarie, professionali di ogni sorta, tollerando inoltre un’evasione che a seconda delle stime varia dai 150 ai 180 miliardi l’anno. Il tutto mentre la caduta del Pil, in parte dovuta alle misure di austerity “alla tedesca” ha portato il debito/Pil a salire dal 121% del 2010 al 123% abbondante attuale. Se pagare le tasse oltre il 50% del proprio reddito da parte della maggioranza degli italiani non rassicura i mercati, non sarà il ritorno in campo di esponenti storici del partito dell’evasione fiscale o del capitalismo familiare a sortire il miracolo.
Col che si rischia oltre al danno rappresentato dal dover pagare più tasse del dovuto per compensare il mancato pagamento dei tanti “furbi” (persone fisiche, società o banche che siano), anche la beffa di non ottenere alcun miglioramento né dei mercati finanziari né delle prospettive economiche. Se qualcuno (da Mario Monti, oggi impegnato in una visita di stato in Russia che ha portato alla sigla di una manciata di accordi per promuovere l'interscambio commerciale tra i due paesi, a Mario Draghi, la cui Bce potrebbe come detto dover presto decidere nuove misure straordinarie non limitate ai tassi o alla fornitura di liquidità alle banche) deve muoversi direi che sia ampiamente giunto il momento di farlo, senza aspettare che passi agosto.