Non solo la Brexit non sarà la fine politica della Ue, come hanno ribadito al termine del vertice di Ventotene Matteo Renzi, Francois Hollande e Angela Merkel, ma via via che vengono pubblicati nuovi dati macro viene il sospetto che potrebbe non essere neppure un terremoto di magnetudo elevata in campo economico come sinora temuto e questo da entrambi i lati. Infatti non solo le vendite al dettaglio in Gran Bretagna non mostrano per ora alcun rallentamento, avendo anzi a luglio toccato il massimo dal 2002, ma anche nel vecchio continente l’attività economica sembra proseguire sostanzialmente agli stessi ritmi.
L’ultima conferma è arrivata oggi dall’indice Purchasing Managers Index elaborato da Markit che in agosto è risultato pari a 53,3 punti, in lievissima crescita dai 53,2 punti di luglio ma rappresenta la migliore lettura dell’indice degli ultimi 7 mesi e si conferma sopra quota 50, che separa le fasi di espansione economica da quelle di recessione. Secondo Markit nel complesso la crescita prosegue in modo solido, nonostante le aspettative di inflazione restino nulle.
In verità a guardare bene si nota come la crescita resti legata al solo settore dei servizi, che ha finora trainato la ripresa e che ha visto il proprio indice salire da 52,8 a 53,1 punti, mentre quello manifatturiero, che gli economisti si attendevano stabile, ha subito una leggera frenata passando da 52 a 51,8 punti, con un rallentamento dei nuovi ordini e un tasso di assunzioni che resta molto debole. Dopo questo dato Markit prevede ora una crescita del Pil di Eurolandia dello 0,3% circa nel corso del terzo trimestre dell’anno, in linea con la crescita media registrata nel primo semestre dell’anno.
Insomma: per ora la Brexit, che in realtà non c’è ancora stata, dovendo la Gran Bretagna presentare ancora la formale richiesta di attivazione dell’articolo 50 (quello che prevede l’uscita di un paese membro dalla Ue), non fa paura, ma certo non c’è da festeggiare per una crescita che resta incapace di assorbire gli elevati livelli di disoccupazione ancora presenti in vaste aree d’Europa tra cui l’Italia (a fine giugno, ultimo dato disponibile, la disoccupazione in Italia si attestava mediamente sull’11,6%, con quella giovanile ancora pari al 36,5%).
Per il futuro molto dipenderà dalle posizioni negoziali che assumeranno la Gran Bretagna da una parte e la Ue dall’altra: oggi Michael Fuchs, vice presidente del gruppo parlamentare della Cdu/Csu di Angela Merkel, ha sottolineato come il mantenimento del cosiddetto “passaporto Ue” da parte delle banche britanniche si presenta “molto difficile” dato che la Ue non consentirà di derogare alle proprie regole ed una volta che la Gran Bretagna e le sue imprese, banche comprese, non faranno più parte dell’Unione saranno trattate come qualsiasi altro soggetto extracomunitario.
In realtà la materia è destinata a essere definita nei due anni di tempo entro cui si dovranno concludere le trattative che partiranno solo dopo che Londra avrà formalmente avviato la procedura e sempre che prima di tale termine la Gran Bretagna non cambi nuovamente idea, magari dopo un secondo referendum che per il momento non sembra imminente ma non è detto non possa tenersi da qui ai prossimi 24 mesi. Del resto proprio l’incertezza sul mantenimento o la perdita del passaporto Ue sembra alla base della possibilità, messa in preventivo dal 28% delle società europee interpellate in un sondaggio condotto in questi giorni da Greenwich Associates, di interrompere i propri rapporti con le banche britanniche.
Nel frattempo, tuttavia, i dati macroeconomici migliori del temuto hanno da un lato consentito ai titoli delle società britanniche, in particolare di quelle di piccole dimensioni (più flessibili e dunque più rapide a reagire a eventuali ripercussioni della Brexit e che il recente calo della sterlina rende prede appetibili per concorrenti internazionali interessati a entrare comunque sul mercato britannico), di risalire sopra ai livelli di quotazione visti prima del 23 giugno scorso, dall’altro dovrebbero indurre la Bce a non varare ulteriori misure straordinarie, almeno per ora.
La situazione resta dunque fluida, ma almeno per ora lo scenario che prevedeva una brusca frenata economica d’autunno in tutto il vecchio continente, ipotesi che avrebbe facilmente stoppato la fragilissima ripresa italiana, sembra destinato a non realizzarsi, dando forse spazio anche al “bel paese” di varare qualche ulteriore riforma pro-crescita o, quanto meno, di non aumentare ulteriormente le tasse nel tentativo di sovvenzionare gli ennesimi poco efficienti “bonus fiscali” il cui utilizzo in questi due anni non ha portato ad alcun risultato concreto. Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico, anche con un quadro macroecononico migliore delle previsioni.