E se poi il diavolo non fosse così brutto come lo dipingono? L’unico vantaggio della strategia del rinvio che sembra essere l’unico punto su cui, per amore o per forza, si sono messe d’accordo le autorità politiche europee sin dallo scorso ottobre è che nel frattempo qualche passo in avanti c’è stato. Non solo in termini di manovre correttive, imponenti ma quasi sempre puntate (per la necessità di fare cassa subito) su ulteriori incrementi delle entrate fiscali e tagli alle spese correnti, ma anche e soprattutto nella comprensione di quella che è la natura della crisi europea. Una crisi, l’ho ripetuto più volte, che nasce da una mancanza di fiducia, certamente, ma che è esplosa dopo anni di crescenti squilibri di bilancia dei pagamenti tra il Nord “virtuoso” e il Sud Europa “cicala”. Gli storici faranno forse giustizia dei pregiudizi e dei tatticismi visti in questi anni, ma è innegabile che la Germania (o l’Olanda) siano riuscite in questi anni a trasformare il proprio apparato produttivo così da renderlo più flessibile e produttivo, mentre la Francia ha fatto fatica a reggere il passo e paesi come Spagna, Italia o Grecia non hanno fatto niente o hanno sbagliato ricetta per migliorare strutturalmente i propri sistemi economici (e di conseguenza il proprio stato sociale che pur sempre dalle risorse economiche a disposizione dipende).
Averlo capito (anche in Italia, in modo sempre più evidente) consente di sperare che nel prossimo futuro siano proposte e accettate delle riforme e delle liberalizzazioni (perfettibili nelle specifiche misure proposte, necessarie come cultura prima ancora che come impatto economico) che ridiano fiato al nostro apparato produttivo e portino nel tempo a ridurre gli squilibri con altri paesi dell’Eurozona, consentendo di raggiungere così quella stabilità senza la quale realmente l’euro sarebbe stato a rischio. Il fatto che ci sia resi conto di questa necessità di riforme strutturali emerge dai risultati delle aste di titoli di stato, che guarda caso continuano (anche oggi) a offrire risultati superiori a quelli attesi, specialmente considerando che nel frattempo Standard & Poor’s ha tagliato il rating sovrano di nove paesi europei di uno o due notch, mantenendoli in crediwatch negativo (il che porta a non escludere ulteriori tagli nei prossimi tre mesi), mentre Fitch ha ripetutamente avvisato che da qui a fine mese potrebbe prendere una decisione sostanzialmente analoga. Se fino a qualche tempo fa la notizia avrebbe gettato i mercati nel panico e generato ulteriori geremiadi contro la “banda delle agenzie”, ora i mercati ignorano sostanzialmente l’allarme, che ai loro orecchi giunge tardivo (la stessa idea di un default della Grecia, possibile già il 20 marzo prossimo quando scadranno 14,4 miliardi di euro di cedole, non sembra più così terribile come fino a poco fa) anche se sui giornali e nella rete italiana si parla ancora molto delle colpe delle agenzie di rating (e curiosamente molto meno delle colpe dei governi e dei banchieri italiani succedutisi negli ultimi 20 anni).
Cos’è successo? Che in parte ci si attende una positiva conclusione delle trattative tra il governo greco e quella parte di creditori privati che si riconoscono nell’Institute of International Finance (IIF) il cui numero uno, Charles Dallara, ha incontrato oggi il premier greco Lucas Papademos per cercare di trovare un accordo definitivo e “volontario” che scongiuri il “default event”, dall’altra una parte delle posizioni sono passate dai portafogli delle banche a quelle di fondi hedge specializzati in titoli “distressed” e quindi pronti ad assumere maggiori rischi pur di sperare in maggiori ritorni. Quanto maggiori? Il conto è presto fatto: Atene propone di rimborsare i titoli in circolazione al 50%, con un mix tra contanti (15 centesimi di euro, ossia meno di 12 centesimi di dollaro, per ogni euro di valore nominale) e nuove emissioni a lungo termine (a 20 o 30 anni), contraddistinte da un tasso annuo tra il 4% e il 5% inferiore a quelli che pagherebbe Atene andando sul mercato.
Tassi che rendono meno interessanti tali titoli agli occhi degli investitori e che portano a una valutazione attorno ai 32 centesimi (circa 25 centesimi di dollaro) per ogni euro di valore nominale il valore dei nuovi titoli, mentre il marzo 2020 tratta sui 40-44 centesimi per ogni euro di valor nominale. Siamo oltre un 10% di differenza, un guadagno potenziale che ingolosisce i fondi hedge che dunque minacciano di attuare una strategia “muro contro muro” facendo causa alla Grecia nel caso fossero costretti dal governo (che nei giorni scorsi ha minacciato di varare una legge apposta, se necessario) ad accettare delle perdite. Minaccia che parrebbe realistica ma che probabilmente è un “bluff” dato che l’eventuale ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo richiederebbe anni prima di giungere a una sentenza e che non assicurerebbe alcuna certezza di un maggior ritorno per tali investitori.
Se poi, di fronte all’eventuale dichiarazione di default (e all’escussione dei CDS sui titoli greci) la “troika” Ue-Bce-Fmi non abbandonerà al suo destino Atene o se si scoprisse che nel frattempo le banche avranno già ceduto o svalutato completamente i titoli, i mercati potrebbero tirare un deciso (e forse decisivo) sospiro di sollievo. Nel frattempo Mario Draghi, che continua a sottolineare come nonostante segnali di “stabilizzazione su un basso livello di attività” vi siano tuttora rischi di un ulteriore peggioramento dello scenario macroeconomico europeo, avrà offerto ulteriore liquidità a tre anni alle banche (a febbraio) e forse limato ulteriormente i tassi, continuando a comprare gradualmente sul mercato quei Btp e quei Bonos che gli operatori volessero cedere per alleggerire la propria esposizione. Dato che il bilancio della Bce è garantito da tutti gli stati membri, il rischio PIIGS sarà stato “socializzato” a livello europeo, l’economia reflazionata, un minimo di maggiore flessibilità sarà stata ricostituita o si sarà sulla via di riuscirvi.
Se non è la fine del tunnel sembra almeno una “road map” abbastanza convincente, tanto più se la Bce accetterà di potenziare i fondi anticrisi o se dal Fmi (che nel frattempo ha tagliato nettamente le previsioni sull'economia italiana per il 2012 e 2013) dovesse arrivare un ulteriore aiuto. L’importante sarà non vanificare tutto con proposte “alternative” come quelle che qualche bello spirito torna a far circolare sulla “decrescita felice” ed altre amenità del genere. Una crescita non può essere infinita e costante, ma est modus in rebus: smettere di crescere non porterà a maggiore ricchezza, né maggiore equità né maggiore lavoro, ma solo a maggiori tensioni sociali e povertà per una fascia sempre più ampia di persone. Obiettivi che non mi sentirei di condividere mai, pur sapendo che l’attuale sistema economico (e i mercati) è assolutamente perfettibile ed anzi va perfezionato per tornare a offrirci prospettive di crescita per noi e per i nostri figli (sulla cui istruzione è il caso di continuare a puntare).