Mario Draghi sembra aver deciso: basta col tirar calci al barattolo, le banche sistemiche europee devono accelerare nell’opera di pulizia dei bilanci da asset tossici e crediti problematici. Una trentina di esse in particolare, dovrebbe ricapitalizzare entro fine anno o comunque nei primi mesi del 2017 e di queste 5 dovrebbero esser italiane. Di chi si tratta e di che cifre stiamo parlando?
I due nomi maggiormente sotto i riflettori sono Mps, che da questa estate ha annunciato un aumento di capitale da 5 miliardi di euro necessario a procedere alla completa cessione di 27,7 miliardi di sofferenze lorde, che verrebbero valutate al 33% del valore di libro (ma per Mps sarà come venderle al 27,5% perché la tranche junior dell’operazione verrebbe riacquistata dai suoi stessi azionisti), e Unicredit, che a sua volta dovrebbe cedere 20 miliardi di Npl (crediti deteriorati) e che potrebbe aumentare il capitale per una cifra che dagli iniziali 3-5 miliardi è lievitata sino a raggiungere, secondo le ultime indiscrezioni , 13 miliardi.
Entrambe le operazioni sono complesse e dense di rischi visto che Mps capitalizza solo 500 milioni (e visto che al tempo stesso la valutazione delle sofferenze, appena confermata dal fondo Atlante, appare comunque “generosa” per asset che sul mercato italiano sono finora stati valutati tra il 5% e il 25% del valore di libro) e che Unicredit ha una capitalizzazione di 12,7 miliardi. In entrambi i casi l’effetto diluitivo, non solo sui soci che non partecipassero all’operazione ma anche in termini di redditività prospettica, rischia di esser molto elevato.
Si noti che la bassa redditività è l’altro capo del problema a cui le banche italiane stanno cercando di porre rimedio, tardivamente e spesso in modo improprio (ad esempio scaricando i costi dei “salvataggi” di banche ormai decotte come le quattro banche “risolte” lo scorso dicembre sui clienti della banche più solide), cercando al tempo stesso di arginare una rivoluzione potenzialmente “disruptive” come quella che porta con sé la fintech attraverso una serie di tagli dei costi che significa in soldoni chiusura di filiali ormai poco redditizie e riduzione del personale (il governo che ha appena raggiunto un accordo con l’Abi per gestire 50 mila prepensionamenti, col rischio che anche in questo caso il costo, 150 milioni l’anno per un triennio, venga coperto dalle tasche dei contribuenti).
Oltre a Mps e Unicredit sono a “rischio aumento”, secondo gli esperti di Equita Sim, anche Banca Carige, Ubi Banca e Banca Popolare di Sondrio. Nel caso dell’istituto ligure, che deve cedere 1,8 miliardi di Npl entro il 2018 di cui 900 milioni entro fine anno, si prospetta l’ipotesi di un aumento di almeno 500 milioni, il doppio dell’attuale capitalizzazione (270 milioni), per Ubi Banca, i cui soci oggi hanno approvato il progetto di banca unica e il cui numero uno Victor Massiah (che continua a nicchiare sull’acquisto delle quattro “good bank”, da cui vorrebbe fossero prima scorporati 4,4 miliardi di Npl) fa sapere che ove mai la fusione Bpm-Banco Popolare domani non venisse approvata dalle rispettive assemblee si potrebbe tornare a parlare per un matrimonio Bpm-Ubi Banca, si parla di 600 milioni, circa il 30% della capitalizzazione, per Banca Popolare di Sondrio di 250-270 milioni, vale a dire il 20%-25% della capitalizzazione.
Non è da escludere, poi, che il fondo Atlante debba aumentare il capitale di Banca popolare vicentina (che tra le tante grane deve risolvere anche quella della controllata siciliana Banca Nuova, ricapitalizzata per 50 milioni lo scorso anno) e Veneto Banca, magari in vista di una fusione, per poter alleggerire i due istituti di ulteriori Npl: 1,9 miliardi di sofferenze solo per Bpvi, 16 miliardi di Npl complessivamente per i due istituti secondo le cifre circolate dopo i recenti abboccamenti col fondo Atlas guidato dall’ex numero uno di Barclays, Bob Diamond (interessato ai due istituti veneti ma solo nel caso di un “dimagrimento” di 3.500 dipendenti sui circa 10 mila complessivi attuali).
Perché si è arrivati a tanto? Perché come ricordato più volte dall’ottimo Fabio Bolognini, da almeno 5 anni si è continuamente posticipata ogni seria soluzione, sperando in una ripresa che non è mai arrivata, al pari di fantomatici “cavalieri bianchi” che si son tenuti il più lontano possibile fatto salvo qualche intervento di facciata come nel caso di Mps.
Nel frattempo altri (irlandesi e spagnoli) hanno accettato l’ipotesi della “bad bank sistemica” che in Italia le banche stesse non hanno mai voluto, “ingenuamente” credendo di poterne fare a meno o di riuscire a pagare uno scotto minore scaricando parte del costo della pulizia di bilancio facendo sottoscrivere aumenti di capitale a investitori ignari dei rischi che correvano, coi risultati sotto gli occhi di tutto.
Il problema a monte di tutto questo stato di cose è che finora non si è quasi mai lavorato per intervenire tempestivamente sulle “inadempienze probabili” (un tempo note come “incagli”) più che cercare di coprire con progressivi accantonamenti le perdite sulle sofferenze conclamata. Così anche l’opera di pulizia dei bilanci che Draghi sta caparbiamente cercando di portare avanti rischia di non dare alcun frutto duraturo se da un lato non ci sarà vera ripresa e dall’altra la capacità di erogare credito e di valutare i rischi dello stesso non migliorerà sensibilmente.
Servirebbe, insomma, che le banche imparassero nuovamente a fare, al meglio, il proprio mestiere, magari affidando a fondi specializzati in operazioni di ristrutturazione (non i fondi “avvoltoi”, ma i fondi “castori”) il compito di risanare le medie e grandi imprese che spesso si sono rivelate debitori ancora peggiori delle piccole e piccolissime imprese. Riusciranno i nostri eroi nell’impresa?