L’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, ucciso e sciolto nell’acido da Cosa nostra
È 23 novembre 1993, sono passati 18 mesi dalla strage di Capaci, dieci dall'arresto di Totò Riina e sei settimane dall'omicidio di don Pino Puglisi, il prete anti-mafia del quartiere Brancaccio. In un maneggio nelle campagne alla periferia di Palermo, un bambino di 13 anni sta facendo quello che lo rende più felice, cavalcare.
È proprio sulla pista che il piccolo Giuseppe Di Matteo vede scorrere gli ultimi attimi della sua infanzia. Quel pomeriggio alcuni poliziotti si avvicinano a lui chiedendogli qualcosa, lui risponde con un radioso sorriso: "Sì! Papà, amore mio!". Non sta nella pelle, Giuseppe, all'idea di rivedere papà Santino, ma, appena accetta di seguirli, gli uomini in divisa lo legano e lo caricano nel bagagliaio dell'auto, come un agnello che stia per essere portato al macello.
Da quel momento mamma Francesca cerca Giuseppe ovunque, chiama gli amici, i parenti, gli ospedali. Ha la terribile consapevolezza di cosa è successo, ma non vuole crederci, lotta fin a quando un biglietto non stronca le sue speranze: Tappaci la bocca (tappagli la bocca). Insieme ci sono due foto di Giuseppe che tiene tra le mani un giornale datato il giorno della scomparsa. Il riferimento (tappaci la bocca) al silenzio è a Santino Di Matteo, detto "Mezzanasca", il papà di Giuseppe, ex luogotenente di Totò Riina, ora in carcere con l'accusa di aver partecipato alla strage che uccise il giudice Giovanni Falcone. I sequestratori propongono la vita di Giuseppe in cambio del silenzio del padre.
Ventotto mesi di agonia
Santino Di Matteo, arrestato insieme ad Antonino Gioé – ufficialmente morto suicida in cella – e Gioacchino La Barbera, decide di non cedere al ricatto. Cerca di negoziare per la vita di suo figlio, ma Cosa Nostra, che dopo l'arresto di Riina risponde agli ordini di Giovanni Brusca, reagisca come sempre: con il sangue. Il piccolo Giuseppe viene affamato, torturato e fotografato per mostrare al padre a quale martirio la mafia sottopone un bambino. Mentre gli inquirenti lavorano per scovare i sequestratori di Giuseppe, loro giocano d'anticipo spostando di continuo il nascondiglio del bambino. Passano 12 mesi, gli assassini di Giovanni Falcone, tra mandanti ed esecutori, vengono condannati. Tra loro c'è anche Giovanni Brusca, u verru (il porco), condannato all'ergastolo in absentia mentre è latitante. Ormai i giochi sono fatti, i capi di Cosa nostra sanno che la mafia sta prendendo un nuovo corso, tenere in vita Giuseppe, è ormai inutile.
L'omicidio
Ormai quindicenne, ridotto a una larva umana, il ragazzo viene strangolato su ordine di Brusca. Il suo corpo viene sciolto in un barile di acido. Lo confesserà lui stesso, catturato nel maggio del 1996, al processo. Proprio nelle aule di tribunale finirà faccia a faccia con Santino, che sbotterà: “Garantisco la mia collaborazione, ma a questo animale non garantisco nulla: se mi lasci solo con lui per due minuti gli taglierò la testa". Il 16 gennaio 2012, la Corte di Assise di Palermo condanna all'ergastolo cinque boss per l'omicidio del piccolo Di Matteo: dodici anni al pentito Gaspare Spatuzza, carcere a vita per Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Luigi Giacalone, Francesco Giuliano e Salvatore Benigno.
L'epilogo
Dopo aver scontato una condanna ridotta dalla collaborazione con lo Stato, Santino Di Matteo ha cercato rifugio nell'ultimo posto che ci si aspettava: a casa. È tornato ad Altofonte, comune a sud di Palermo, dove lo attendeva sua moglie. È l'unico pentito a essere tornato in Sicilia con il proprio nome. Ha fatto causa allo Stato per non essere stato inserito nel programma protezione testimoni, dopo aver scontato la sua pena. Condannato all'ergastolo, nel 2004, Giovanni Brusca ha ottenuto la possibilità di godere di permessi premio per tornare a casa, subito revocatagli perché sorpreso a usare un cellulare. Dalla morte di Totò Riina, Cosa nostra è tornata a muoversi nelle retrovie, preferendo la corruzione agli attentati.