L’aver superato lo scoglio della fiducia non sembra al momento aver impresso all’azione del governo guidato da Enrico Letta quella svolta riformista da molti auspicati e nei fatti necessaria non da ora ma da almeno 15 anni, ossia da quando il vecchio “modello Italia” ha smesso di produrre crescita economica ed è entrato in crisi irreversibile. Giungono dunque a opportuno monito alcuni segnali a dir poco raccapriccianti che indicano dove stia la realtà rispetto alla distorta percezione che sembrano tuttora averne i rappresentanti (non solo ma anche politici) della nostra classe dirigente. Primo dato e primo monito: il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici italiane si è ridotto dello 0,7% in termini reali (ossia tenuto conto dell’inflazione) nel secondo trimestre dell’anno rispetto ai primi tre mesi del 2013 e dell’1,3% (sempre in termini reali) rispetto a dodici mesi prima. Non stupisce che questo sia accaduto in parallelo ad un calo del reddito disponibile per le medesime famiglie dello 0,6% rispetto al trimestre precedente (semmai sorprende che il confronto su base annua mostri un reddito disponibile in crescita dello 0,1%, ma questo sembra dovuto solo al rinvio del pagamento dell’Imu sulla prima casa).
Secondo monito: la propensione al risparmio delle famiglie italiane è calata a fine giugno al 9,4%, lo 0,2% in meno di fine marzo (ma l’1,7% in più rispetto a dodici mesi prima), a fronte di una spesa per consumi finali calata dello 0,3% sul trimestre e dell’1,8% su base annua (ecco spiegato l’apparente incremento del risparmio, si tratta di un risparmio fatto “ai danni” dei consumi). Quanto agli investimenti fissi lordi delle aziende non finanziarie, questi sono rimasti sugli stessi livelli del primo trimestre, ma sono crollati del 5,6% rispetto al secondo trimestre 2012. Come dire che siamo sul fondo della crisi (forse) ma non abbiamo alcuna possibilità per ora di rialzarci. Il perché è facile capirlo da un altro inquietante segnale: secondo quanto annunciato dall’Istat la pressione fiscale (entrate fiscali/Pil) sempre a fine giugno era ormai salita al 43,8%, l’1,3% in più rispetto a tre mesi prima (e questo nonostante il rinvio del pagamento dell’Imu).
Attenzione però: dai dati dei primi otto mesi dell’anno (dunque conteggiando anche luglio e agosto) si scopre come a fronte di entrate tributarie sostanzialmente stabili (poco meno di 268 miliardi, vale a dire lo 0,3% meno di quanto incassato nei primi otto mesi del 2012) si è registrato un “tonfo” del gettito Iva (-5,2%) pari a 3,7 miliardi di minor gettito, più che equivalenti a quanto si sarebbe voluto ottenere alzando dal primo settembre l’aliquota dal 21% al 22% (aumento poi slittato di un mese con necessità di “copertura” del miliardo di euro di minori introiti rispetto a quanto stimato). Ultimo segnale negativo, secondo Immobiliare.it la “moda” delle sigarette elettroniche è praticamente morta con una forte crescita degli annunci di cessioni di negozi anche online. Oltre all’avversità della lobby del tabacco, che sta cercando in tutti i modi di ostacolare la diffusione del pericoloso “rivale”, pesa come un macigno la decisione di applicare dal primo gennaio del prossimo anno una tassa sul consumo pari al 58,5% e ad assoggettare all’autorizzazione dei Monopoli di Stato la commercializzazione delle sigarette elettroniche, i cui rivenditori dovranno rispettare gli stessi requisiti previsti per la gestione delle tabaccherie.
Morale della favola: questo paese non si salva introducendo nuove tasse per cercare di “mettere una pezza” ai buchi che si aprono periodicamente nei conti a causa della recessione e del suo effetto negativo (“pro ciclico”) sui rapporti deficit/Pil e debito/Pil (a causa del calo del Pil medesimo), tasse che per di più rischiano di produrre il classico effetto del "cornuto e mazziato" visto che rischiano di modificare le definizioni di ricchezza (senza che nulla cambi nella situazione reddituale o patrimoniale dei singoli contribuenti). Non si salva neppure alleggerendo di 1,5 o 2 miliardi il “cuneo fiscale” sul lavoro, visto che secondo stime occorrerebbe alleggerirlo di 50 miliardi solo per arrivare al livello a cui il “cuneo” impatta su costo del lavoro tedesco (ricordando peraltro che la Germania è diventata, dopo un ventennio di “moderazione salariale” selvaggia, la piccola Cina d’Europa e però appare sempre più fragile e bisognosa di riforme e nuove infrastrutture) e che se solo per trovare il miliardo di “Iva mancante” (sic) ci si accapiglia da settimane, trovare una somma pari a 50 volte tante è semplicemente fantascienza.
Soprattutto non si salva finché non si semplificherà la burocrazia (possibimente non alla maniera delle zone a “burocrazia zero” di cui si parla da anni senza che neppure una di esse sia mai entrata in vigore in Italia), non si favorirà la concorrenza (anziché assecondare ogni volta la lobby di turno per ridurre semmai gli spazi di pericolosi nuovi concorrenti, in tutti i settori), non si darà alle imprese la possibilità di competere, trovare credito e investire sul proprio futuro “a prescindere” dalla nazionalità della proprietà (altrimenti prepariamoci a nuovi salassi a spese dei contribuenti per mantenere, ad esempio, una “compagnia di bandiera” costata già non meno di 4 miliardi di euro di aiuti di stato a vario titolo e che potrebbe finire “rinazionalizzata” a breve o una banca “sistemica” che già ha ottenuto 4,1 miliardi di aiuti di stato e ha appena annunciato un piano “lacrime e sangue” per cercare di restituirli e rimanere autonoma).
Cosa dite? Allora come ci si salva? Ci si salva solo se riparte la crescita, cosa che richiede le riforme strutturali di cui da tempo segnalo l’esigenza ma anche un cambiamento culturale profondo a favore dell’intrapresa privata (e della qualità della spesa pubblica) e della trasparenza (ed equità) nei rapporti tra stato, aziende e famiglie, una lotta ai grandi evasori che colpisca se del caso anche gli intermediari finanziari che li hanno aiutati per decenni a trasferire all’estero (o ad occultare in Italia) il “nero” creato. Ci si salva con una politica economica che privilegi i settori a più alta innovazione, che porti alla creazione e alla crescita di un terziario realmente “avanzato” e non fatto solo di badanti, infermieri e venditori assortiti (con tutto il rispetto per costoro).
Ci si salva restando nell'Eurozona, ma rinegoziando con la Germania e i partner europei il nostro ruolo in Europa anche alla luce dei contributi che l’Italia ha dato e continuerà a dare ai paesi membri in crisi e rinegoziando con la Cina e gli altri paesi emergenti la possibilità che le merci e servizi prodotti fuori dall’Europa circolino liberamente in essa solo in cambio di una tutela dei diritti dei lavoratori (là e qua) senza la quale ogni confronto basato puramente sul costo del lavoro è destinato ad essere perso, forse persino dalla Germania. Speriamo i moniti che giungono dai dati di questi giorni servano a qualcosa, peccato solo che tutto questo avrebbe dovuto essere fatto 15 anni fa e che oggi è già tardi.