Il 2015, ben più dei precedenti, è stato l’anno in cui il Paese ha scoperto la paura dei migranti, dei profughi, dell’invasione imminente che avrebbe spazzato via la nostra civiltà, rovesciato gli equilibri sociali e stravolto per sempre le nostre abitudini. Ne abbiamo parlato a lungo in questi mesi, soffermandoci sulla marea di informazioni false, sulle speculazioni dei politici, sulle percezioni distorte dell’opinione pubblica, sul rischio di strumentalizzazione elettorale. E più volte, anche in precedenza, vi avevamo raccontato cosa ha prodotto questo clima, in termini di tensioni sociali, di schiacciamento del dibattito pubblico su questioni marginali, di mutamenti nei rapporti quotidiani fra le persone, ma anche di errori (o passi avanti) nella produzione legislativa e nel rapporto fra le istituzioni, di interventi europei e di nuove idee sulla gestione delle crisi.
È difficile spiegare quanto successo complessivamente senza chiamare in causa le responsabilità dei mezzi di informazione. Lo nota bene Giovanni Maria Bellu, presidente dell'Associazione Carta di Roma, nella premessa a un report realizzato qualche giorno fa:
Gli italiani, cioè i nostri lettori e ascoltatori, hanno idee molto confuse sull’immigrazione. Per esempio sono convinti che i musulmani siano il quintuplo di quanti realmente sono. e infatti re- stano sorpresi quando scoprono la verità, magari a margine di un servizio sulle cellule jihadiste di Bruxelles. Una questione che da decenni è parte integrante della vita del Paese, viene approfondita episodicamente, di solito in occasione di eventi apocalittici. Col risultato che la regola base della nostra professione – il dovere di restituire la verità sostanziale dei fatti – pare non aver trovato ancora applicazione in questo campo
Della (nuova) scoperta dell'emergenza
Su quanto e come la dinamica "emozionale" pesi nell'attenzione che i giornali riservano a una particolare questione e su come ciò venga recepito dai lettori, ha scritto l’European Journalism Observatory, insistendo sul peso che ha avuto la pubblicazione della foto del piccolo Aylan Kurdi e mostrando come se la foto “non ha avuto un impatto decisivo sul modo in cui i giornali italiani analizzati hanno affrontato la questione”, allo stesso tempo “gli articoli di taglio “umanitario” sono complessivamente aumentati”. Il punto è che, come vedremo più avanti, “quella foto ha scosso le nostre coscienze solo per il tempo di un clic” (Marta Serafini sul Corsera), come già accaduto in passato per altri eventi di questo tipo.
Tale esempio chiarisce come il coinvolgimento emotivo ed empatico dei lettori, che pure si esaurisce nel breve volgere di qualche giorno, contribuisce ad alimentare un circolo vizioso in cui alla normale produzione giornalistica (legata al flusso delle notizie) si aggiunge la "costruzione" dei fatti. I dati raccolti da Ilvo Diamanti aiutano a comprendere l'ampiezza del fenomeno:
Il tema dell’immigrazione, infatti, nei primi 10 mesi del 2015 ottiene 1.452 titoli sulle prime pagine dei giornali, con incrementi, rispetto al medesimo periodo nel 2013, che variano in misura significativa, fra una testata e l’altra. Si va dal 70 – 100%, in alcuni casi (Corriere della Sera e la Repubblica), fino al 188% ( il Giornale). E la frequenza appare in relazione diretta con l’enfatizzazione dei toni e degli argomenti utilizzati.
Quanto alla televisione, nelle edizioni del prime time dei telegiornali delle 7 reti generaliste italiane (TG1, TG2, TG3, TG4, TG5, Studio Aperto e TgLa7), nel 2015, si osserva un vero e proprio record di notizie dedicate all’immigrazione: 3.437 notizie (1.996 nel I semestre e 1.441 nel II semestre). Si tratta del numero più alto in 11 anni di rilevazioni.
C’è un legame diretto con i fatti in sé, impossibile dire il contrario. Ma lo "spauracchio migranti" non è una peculiarità del 2015 e già in passato avevamo avuto vere o presunte emergenze. Quest'anno però l'immigrazione è divenuta un fatto mediatico per eccellenza, "lo specchio della nostra difficoltà – per non dire impotenza – di comprendere", ma anche il terreno su cui i media e la politica stessa scelgono di giocare la partita del consenso. Se però la narrazione dei media appare giustamente "rapsodica" ("veniamo investiti da improvvise ondate mediatiche e informative, seguite, per citare i versi di un autore siciliano contemporaneo, da un oceano di silenzio. Che subentra e si allarga quando irrompe una nuova emergenza, una nuova urgenza. Politica oppure economica. Un improvviso dramma di cronaca. In ambito nazionale o internazionale"), la politica non resiste alla tentazione di trasformare la vita delle persone in un gigantesco braccio di ferro.
Il risultato è un gigantesco frullatore in cui entra praticamente di tutto: notizie, opinioni, inchieste, proposte, provvedimenti legislativi, bufale, mobilitazioni di piazza, meeting europei, dati reali, proiezioni. Ciò che ne esce è una melassa indistinta, che può essere poi rilanciata in tv e sui media mainstream da chiunque. Il circolo vizioso per eccellenza, insomma.
Decine di giornalisti chiamati nei talk show senza aver letto uno straccio di documento ufficiale, ridotti a parlare per slogan e a regalarci le loro "opinioni". Così, manco si trattasse di recensire un film o uno spettacolo teatrale. Politici completamente disallineati rispetto alla realtà, poco o nulla competenti nel merito delle questioni, pronti a cambiare opinione a ogni mutar del vento, capaci di ridurre un fenomeno complesso e articolato a un referendum pro o contro il Governo in carica, o alla solita informe litania antieuropeista.
[Un esempio tra gli altri, tanto per capirci. Principale trasmissione pre-serale di approfondimento politico. Ospiti: conduttori, giornalisti "di grido", Matteo Salvini, politico x di centrosinistra. Dopo un paio di servizi a tema "invasione", Salvini attacca l'Europa: "Voglio sapere che fine ha fatto il piano Ue contro gli scafisti!!!". Risposta corale in studio: "Beh, è quello che ci chiediamo anche noi, in effetti". Ecco, tralasciando il fatto che magari un parlamentare europeo dovrebbe sapere che "fine" abbia fatto un provvedimento già passato al suo vaglio, sarebbe interessante capire come mai nessuno dei giornalisti fosse a conoscenza del piano in sé, né del perché non fosse in corso di attuazione (la prima parte non prevedeva azioni dirette contro gli scafisti), né del perché non potesse in alcun modo risolvere il problema degli sbarchi (senza risoluzione Onu, poi…).]
Ma tant'è, il mood del momento era "è colpa dell'Europa". Poi, è diventato "l'Europa ha cambiato verso". E, infine, ora che ci hanno di nuovo multato, siamo a "l'Europa non si rende conto". Tutto fantastico.
Il terrorismo, le malattie, la criminalità e l'immigrazione
Di quanto l'associazione terrorismo / immigrazione abbiamo drogato il dibattito pubblico sull'immigrazione, si è parlato soprattutto in relazione ai tragici attentati di Parigi o, in generale, all'avanzata in Siria e Iraq dell'Isis. Sempre Carta di Roma rileva come si tratti di una associazione che suscita paura e sgomento, a maggior ragione quando alcuni mezzi di informazione scelgono “titoli che usano il registro della spettacolarizzazione e della paura, stabilendo associazioni tra chi commette attentati e chi professa una religione, con la grave conseguenza di presentare un’immagine distorta e allarmistica dei musulmani e di conseguenza nei confronti di tutti coloro che professano questa religione”. Ad ora ci sono indagini in corso e provvedimenti di espulsione, ma non è affatto provato il teorema di un legame fra immigrazione e terrorismo, né ci sono evidenze certe della scelta dei barconi come mezzo per entrare nel territorio italiano, né ci sono allarmi concreti dei servizi segreti e dell'intelligence sull'efficacia del proselitismo nei centri di accoglienza che ospitano migranti.
Come negli anni passati, a un certo punto la narrazione della paura si concentra sul pericolo malattie. Scabbia, malaria, Ebola, Hiv.
"Vogliamo reimportarla, reimportiamola! Ma facciamolo alla luce del sole, informando la popolazione che alla polizia non vengono forniti neppure gli strumenti minimi di profilassi": che significa esattamente? C'è qualcuno che ha interesse a "reimportare" malattie, a contagiare la popolazione? E ancora: "Quando i nostri bisnonni approdavano negli Stati Uniti, Paese della Libertà, dopo aver visto la Statua con la fiaccola accesa, venivano subito confinati a Ellis Island in quarantena."
Con queste parole Beppe Grillo, peraltro in buona compagnia, metteva in relazione gli sbarchi dei migranti a un presunto allarme TBC. Una bufala vera e propria (come avemmo modo di spiegarvi), che ha monopolizzato il dibattito per giorni.
Poi è stata la volta dell’Ebola, poi della malaria, della scabbia. Sullo stesso canovaccio e con la stessa, nulla o quasi, consistenza.
La narrazione ha sempre più spesso fatto ricorso a toni allarmistici, come segnala il report Carta di Roma, che ha analizzato alcune testate "tradizionali":
È singolare notare come effettivamente la dimensione maggiormente ansiogena non si riferisca alla criminalità o alla cronaca nera, e nemmeno al reale rischio malattie o a evidenze scientifiche su contagi, e nemmeno a concreti pericoli legati al terrorismo, ma agli sbarchi, “ai racconti di un flusso che pare inarrestabile e che in ragione di queste caratteristiche non è gestibile”. Il problema, così, non diventa legato al fatto in sé, ma alla sua percezione e alle proiezioni di uno scenario possibile.
Prima ancora dei fatti di Parigi, segnalavamo come “sul tema del terrorismo di matrice islamica ci stessimo avviando verso un vero e proprio cortocircuito informativo”, ricordando le parole di Alfano (”Non abbiamo in questo preciso momento – voglio subito ribadirlo – segnali che indichino l’Italia o gli interessi italiani come esposti a specifiche ed attuali forme di rischio”, diceva alla Camera) e i report del Copasir sul rischio di attentati di matrice terroristica in Italia, legati allo sbarco di migranti (“Permane all'attenzione dell'intelligence il rischio di infiltrazioni terroristiche nei flussi via mare, ipotesi plausibile in punto di analisi ma che sulla base delle evidenze informative disponibili non ha sinora trovato concreto riscontro”).
Insomma: nessun riscontro e nessuna segnalazione specifica su terroristi infiltrati tra i migranti, nessun allarme concreto sul rischio di attentati da parte del terrorismo di matrice islamica in Italia. E, ripetiamo salvo qualche indagine in corso e qualche espulsione (le cui ragioni non ci è dato di verificare) il teorema secondo cui orde di terroristi siano entrate in Italia per il tramite dei barconi è oltremodo fallace.
Sui danni che ha invece prodotto l'associazione automatica musulmano – terrorista, abbiamo parlato a lungo qui e qui, ma c'è un dato che merita una ulteriore considerazione: il gap che c'è fra la consistenza della popolazione di fede musulmana in Italia e la percezione degli italiani. E il grafico è decisamente esplicativo di cosa si intende quando si parla di "invasione islamica":
Lo spauracchio del "terrorismo" ha paradossalmente oscurato il cavallo di battaglia "storico" di alcuni media / politici: il presunto legame fra criminalità e immigrazione. Le considerazioni che abbiamo fatto qui, possono essere sintetizzate così:
In proporzione alla consistenza della popolazione, i dati sembrerebbero confermare l'idea che "gli stranieri delinquono molto più degli italiani". Ma basta un rapido excursus storico per confermare che "l’immigrazione provoca sempre l'aumento del numero di reati nel paese di arrivo” e che “gli immigrati extracomunitari nel nostro paese commettono alcuni reati (furti, spaccio e traffico di stupefacenti, rapine, omicidi) più spesso degli italiani” (reati "a forte rischio reiterazione", condizione che determina la carcerazione per il 95% dei casi). Per avere un quadro completo, però, è necessario aggiungere altri elementi:
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la popolazione carceraria di nazionalità straniera tende ad usufruire in maniera nettamente inferiore delle misure alternative al carcere;
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i reati commessi di solito dagli stranieri sono proprio quelli che più spesso portano in carcere;
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i tempi di permanenza degli stranieri in carcere sono mediamente molto più bassi rispetto a quelli degli italiani.
Sbaglieremmo però a pensare che le narrazioni tossiche vadano semplicemente derubricate a "effetto collaterale" dei tempi moderni. Perché poi il mood finisce per influenzare anche le scelte dell'esecutivo, le determinazioni della politica e ha effetti concreti sulla vita delle persone.
È il caso delle misure antiterrorismo (con una folle prima versione del decreto), della mancata cancellazione del reato di immigrazione clandestina (il Governo non ha ritenuto di esercitare la delega votata dal Parlamento, non trasformando il reato penale in illecito amministrativo, né inserendolo nella lista di quelli depenalizzati), della conferma della rinuncia a Mare Nostrum malgrado tutti, ma proprio tutti, i dati ne confermassero l'efficacia.
Cosa resta, dunque, dell'anno della grande paura?
Il modo in cui il sistema Paese ha reagito nei mesi della "grande paura" degli immigrati resterà come esempio perenne di isterismo di massa, ma anche di manipolazione della paura, oltre che di pressappochismo dell'informazione e di fragilità della politica (definire "ridicole" le proposte di alcuni partiti di fronte all'emergenza è un eufemismo).
Spesso ci si è soffermati sul "sentiment" sui social network (dove abbiamo visto un po' di tutto, in effetti…). In modo eccessivo, a nostro parere, considerando che appare debole la tesi secondo cui la personalità di ognuno è scissa tra vita reale e vita "da social network" (proprio perché in molti casi la sola "esperienza del mondo che abbiamo" è tramite i social network, le nostre reazioni social sono autentiche e concrete), e che un atteggiamento di questo tipo appare fortemente deresponsabilizzante.
L'odio non "nasce sui social network". L'odio non è "colpa di internet". L'odio, in questo caso, è figlio della paura.
Prova a spiegarlo Baumann: "Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto”.
Come scrisse Arianna Ciccone, presentando il progetto di Valigia Blu sull’altra faccia del Paese, “questa spietatezza, questo non vedere l’altro come un essere umano, questo sentimento diffuso di odio, ostilità, disprezzo sempre più esteso – “orda selvaggia e dilagante” – è l’orrore dei nostri tempi. A questo orrore bisogna opporsi con tutte le nostre forze”.
E questo abbiamo scelto di fare, seguendo una sorta di doppio binario. Parlare "il linguaggio della verità", attenersi ai "fatti" (depurati dalla propaganda e dalle strumentalizzazioni politiche), raccontare l'evolversi della situazione senza forzature, evitare le speculazioni, ma senza tacere delle problematiche, degli errori, delle difficoltà del sistema Paese.
E raccontare l’Italia della solidarietà e dell’accoglienza. Quella che si è fatta carico di salvarci la faccia e la dignità, quando sembrava così facile lasciarsi trascinare dal vortice dell’odio e dell’indifferenza.