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L’alternanza scuola lavoro? Di certo non risolve il problema dei giovani disoccupati

Con la Buona Scuola Matteo Renzi vuole risolvere anche la disoccupazione giovanile. Con i programmi di alternanza. Ma questi programmi non c’entrano col lavoro.
A cura di Michele Azzu
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È stato approvato alla camera il disegno di legge “La Buona Scuola”, la riforma dell’istruzione varata dal governo Renzi che ha suscitato tante critiche da insegnanti, alunni e sindacati. E di lavoro si parla molto in questa riforma: a partire dalle 100.000 assunzioni annunciate fino alla volontà di intervenire sull’emergenza disoccupazione giovanile, oggi al 43.1 per cento.

“È l’emergenza numero uno”, ha detto il premier nel suo video promozionale della riforma, in cui col gessetto indica su una lavagna punto per punto i contenuti. Il primo punto del premier è proprio l’alternanza scuola lavoro. “L’alternanza funziona in Germania, in Austria, in Svizzera e anche in Italia in Alto Adige”, spiega il premier in questo video.

Di che si tratta? Per alternanza scuola lavoro si intende quell’insieme di progetti e percorsi realizzati tra scuole e aziende che permette agli studenti di utilizzare una parte delle ore di lezione negli ultimi anni scolastici – principalmente negli istituti tecnici e professionali – per lavorare in fabbrica, in laboratorio, in ufficio, in azienda. Con stage o contratti di apprendistato specifici. Su questo, da mesi, il governo tende a puntare.

Lo aveva detto anche il ministro dell’istruzione Stefania Giannini nel corso di una visita tenuta presso lo stabilimento Bosch di Modugno lo scorso gennaio: "L'istruzione é la chiave di soluzione del 90 per cento dei nostri problemi". Ma in quel caso si trattava di stage. E d’altra parte anche il programma Garanzia Giovani del governo Renzi ha puntato fortemente su stage e tirocini per occupare, in qualche maniera, questi giovani (fino ai 29 anni) che oggi non riescono a trovare lavoro in nessuna maniera.

Ora il ddl “La Buona Scuola” punta ad ampliare i programmi di alternanza e porta la dote finanziaria a 100 milioni di euro dagli 11 milioni dell’anno scorso (cifra simile a quella degli anni precedenti). Un bel salto avanti, quindi. Ma cosa c’entra l’alternanza scuola lavoro con la disoccupazione giovanile? Direttamente, in realtà, non c’entra nulla: gli studenti non influiscono sul conteggio dei giovani disoccupati. Ma l’idea è che riformando il rapporto tra aziende e scuola, ispirandosi al modello tedesco, i giovani potranno inserirsi meglio nel mondo del lavoro, sviluppare capacità e competenze che oggi il mercato del lavoro chiede e che la scuola non riesce più ad insegnare.

Prendiamo il modello tedesco di alternanza scuola lavoro. In Germania, Stato ed enti locali fanno i programmi e finanziano una parte di questa formazione. Le aziende, dal canto loro, offrono allo studente un regolare contratto con uno stipendio. Alla fine del percorso, che può durare sino a tre anni, ci sono gli esami finali, con oltre 360 diverse qualifiche riconosciute. Secondo i dati della Camera di Commercio tedesca circa l’80 per cento degli studenti che aderiscono ai programmi di alternanza vengono assunti in azienda.

In Alto Adige, dal 1955, esiste un modello ispirato proprio a quello tedesco. Si chiama “sistema duale” e si basa sui contratti di apprendistato, e non sugli stage. L'apprendista, dai 15 ai 24 anni, frequenta una scuola professionale e parallelamente l'azienda o l'artigiano di riferimento. Il rapporto, solitamente, è di un giorno la settimana a scuola e di altri 5 al lavoro. E il datore di lavoro, oltre a pagare uno stipendio di circa 700-800 euro (su cui non paga i contributi, cioè la futura pensione del giovane) deve disporre di alcuni requisiti. Al termine del percorso, ovviamente, c’è l’esame per il diploma professionale.

E nel resto d’Italia cosa succede? I dati del monitoraggio di Indire dell’ultimo anno ci dicono che 2.361 istituti hanno partecipato ai programmi di alternanza, con 10.279 percorsi avviati e 210.500 studenti a prenderne parte. Il 43 per cento di queste scuole sono istituti professionali, il 37 per cento istituti tecnici, solo il 13 per cento licei. Mentre delle strutture ospitanti solo il 43.8 per cento sono aziende. La maggior parte dei percorsi, circa il 60 per cento, dura un anno, mentre il 32.5 per cento dura due anni, il 15 per cento tre anni. Il numero medio di ore annuali registrato è stato di circa 100 ore.

A guardare i risultati tedeschi, viene da pensare che la decisione di puntare sull’alternanza scuola lavoro, da parte del governo, sia una cosa buona. Buono il fatto che la dotazione finanziaria passi a 100 milioni di euro. Buono che si voglia portare le ore di media annuale dalle attuali 100 a 400 negli istituti tecnici, e 200 nei licei. Tutto buono, fino a qui, come dal nome della riforma, la buona scuola.

Il problema, o il “cattivo” di questa riforma, è che l’alternanza scuola lavoro non risolve la disoccupazione giovanile. Neanche in teoria. Anzi, indicare questi programmi come correlati al dato del 43.1 per cento di giovani che non lavora è sbagliato. L’alternanza scuola lavoro esiste già. I programmi di stage e tirocini curriculari, a scuola e all’università, esistono già. Così come quelli fuori dal percorso di studi. Esiste un programma europeo, la Garanzia Giovani, con una dotazione finanziaria importante – 1 miliardo e mezzo di euro – che in un anno si è rivelato del tutto inefficace nel trovare lavoro ai giovani.

Insomma, dire che i percorsi formativi possono risolvere il problema del lavoro dei giovani è un’affermazione smentita dai fatti. Prova ne sia che anche in Alto Adige l’alternanza per la formazione superiore, cioè fino ai 25enni, non è mai decollata come quella dei più giovani. Mentre per quanto riguarda la Germania c’è una considerazione importante da fare: investe in questi programmi oltre 2 miliardi di euro l’anno. Una cifra imbarazzate, ben lontana dai nostri 100 milioni, una cifra capace di riformare tutto il sistema. Non sorprende che l’80% degli studenti, poi, riesca a trovare lavoro.

Insomma, ritorniamo sempre qui. Alle coperture finanziarie e ai fondi inadeguati. Alle intenzioni del governo che sono “buone” ma lontane anni luce dall’essere efficaci. Dagli annunci di soluzioni definitive che poi, a guardare bene, sono dei placebo venduti negli annunci come fossero antibiotici. L’alternanza scuola lavoro, ne “La Buona Scuola”, può essere una cosa buona. Che può aiutare ad avvicinare i giovani al mondo del lavoro. Ma non scherziamo, il 43 per cento di disoccupazione giovanile è un’altra cosa. E i neet che non studiano e non lavorano, e l’80 per cento dei giovani che lavora con contratti di pochi mesi o a partita Iva, sono un’altra cosa. Cose che, prima o poi, andranno affrontate seriamente per quello che sono: emergenze.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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