Una vera casa degli orrori nella quale c'erano 85 gatti rinchiusi tra sporcizia, escrementi e rifiuti di ogni genere. Era questo lo scenario che nell'estate del 2024 si sono trovati davanti i volontari dell'Enpa, insieme alla Polizia locale e agli operatori dell'Ats veterinaria, intervenuti in un'abitazione a Brescia a seguito di una segnalazione.
Nell'appartamento di appena 100 metri quadri c'erano più di 80 gatti, in un contesto tale da lasciare senza parole anche volontari e operatori più esperti che si sono trovati davanti "porte e finestre sigillate da strati di escrementi, un odore insopportabile e un’atmosfera di degrado totale nel pieno del mese di agosto", come ricordano gli attivisti dell'Enpa.
Tra il recupero dei gatti e tutte le fasi successive, l’operazione è stata estremamente complessa sotto ogni punto di vista: sanitario, logistico, sociale, senza contare la ricerca di strutture di accoglienza adeguate per tutti gli 85 felini.
Davanti a un simile scenario viene da chiedersi come sia possibile per una persona che vive in simili condizioni non rendersi conto del degrado in cui si trova, e in cui costringe sé stessa e i suoi animali. Per fare chiarezza abbiamo raggiunto la psicologa psicoterapeuta Ilaria Falchi, esperta del fenomeno dell'animal hoarding, l'accumulo seriale di animali.
Chi sono gli accumulatori: vittime e carnefici
"Gli accumulatori dopo aver raccolto gli animali non riescono a lasciarli andare neanche dopo morti – spiega Falchi – Nei casi più gravi si assiste anche al ritrovamento di corpi conservati nei modi più inusuali, ad esempio nel freezer. Alla base del disturbo c'è proprio la difficoltà per gli accumulatori di separarsi dagli animali, e si ipotizza che ciò derivi da un trauma dall'attaccamento, perché spesso sono vittime di forti traumi durante l'infanzia come lutti improvvisi, violenze, abusi, incuria".
L’animal hoarding, il disturbo da accumulo di animali, conosciuto anche come "sindrome di Noè", si manifesta attraverso la raccolta compulsiva di un grande numero di animali e nell’incapacità nel fornire loro standard minimi di nutrizione, igiene e cure veterinarie. L'incapacità di provvedere agli animali spesso si accompagna anche al malfunzionamento della persona, sia a livello sociale che lavorativo, ma non è la regola: "Studi recenti mostrano che questo disturbo è trasversale a tantissime categorie sociali, compresi professionisti affermati nel lavoro che portavano avanti una vera e propria doppia vita, quindi è un fenomeno molto complesso".
L’animal hoarding è presente nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali come specificità del disturbo di accumulo, ed è annoverato fra i disturbi psichiatrici già dai primi anni del Duemila. Nonostante questo è molto difficile per le Forze di Polizia riuscire a distinguere i casi di maltrattamento da quelli di accumulo.
"Non è il numero degli animali che definisce una situazione di accumulo. Sono state riscontrate situazioni di accumulo anche con ‘soli' 5 animali, il segnale è da ricercarsi nelle condizioni degli animali, nel fallimento a provvedere alle loro minime esigenze di salute, di benessere, di alimentazione. In questi casi non basta togliere gli animali: la recidiva è del 100%. Bisognerebbe fare in modo che ci sia un intervento efficace che prenda in carico tutti: animali e persone".
Falchi utilizza infatti l'approccio "Link" dal nome dell'associazione di promozione sociale che promuove iniziative e studi scientifici sulla correlazione tra maltrattamento animale e distinti tipi di violenza umana intraspecifica. "L'intervento e la tipologia di intervento che è stato evidenziato essere più efficace è quella che coinvolge tutte le vittime presenti – sottolinea la psicologa – Sia le associazioni che si occupano di benessere degli animali, oltre al servizio veterinario del Comune, e anche i servizi che si occupano della persona, quindi i servizi sociali e i servizi di salute mentale, devono essere coinvolti".
Accumulo passivo e attivo
Gli accumulatori possono raccogliere animali in maniera attiva oppure passiva. "Non esiste l'identikit dell'accumulatore – sottolinea Falchi – ma delle tipologie rispetto alle motivazioni che portano al disturbo. Ad esempio, ci sono i caregiver sopraffatti, persone che iniziano con un piccolo numero di animali e che non riescono a provvedere alle loro esigenze a causa di eventi stressanti. Poi iniziano le cucciolate e il numero degli animali cresce".
C'è poi una seconda categoria, forse più insidiosa: "Ci sono i ‘salvatori', gli accumulatori attivi, coloro che fanno del salvare tutti gli animali la propria missione. In questo gruppo rientrano le persone alla ricerca di animali abbandonati o dispersi, talvolta anche mettendo avvisi su social network. In alcuni casi gli animal hoarder promuovono loro stessi come rifugi per animali o servizi di salvataggio". A questo punto entrano in gioco le responsabilità della società, oltre che del singolo: "Ci sono gli accumulatori passivi, coloro che hanno la reputazione di accettare animali che nessun altro vorrebbe. Spesso i vicini o i conoscenti scambiano queste situazioni per semplice passione per gli animali e portano ancora altri cani e gatti con l'intento di disfarsene".
Gli accumulatori quindi non agiscono con l'intento di ferire gli animali, sono anzi spinti da un sentimento opposto. Eppure il risultato che ottengono è proprio il maltrattamento.
Perché gli accumulatori maltrattano gli animali
"Il maltrattamento è la conseguenza diretta del disturbo che prevede proprio il mancato rispetto delle esigenze specie-specifiche degli animali che vengono accumulati. Una volta che l'animale viene preso perde la propria soggettività, diventa una parte della persona che accumula, per questo i suoi bisogni alla fine non vengono salvaguardati", fa presente l'esperta.
"Queste persone non sono criminali ma hanno un gravissimo disturbo, e un grandissimo disagio, che li porta a rinchiudersi, allontanandosi dalla società. Se non agiamo su questo non possiamo proteggere né le persone né gli animali".