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Negli ultimi giorni non si fa altro che parlare di de-estinzione. I social impazzano, i media rilanciano: è tornato in vita il "dire wolf", l'enocione, o metalupo se siete fan de Il trono di Spade. Dietro questa operazione c'è Colossal Biosciences, un'azienda americana di biotecnologie e ingegneria genetica che vorrebbe riportare in vita animali estinti e che, con molta enfasi e tanto marketing, ha annunciato la creazione dei primi "enocioni" moderni.
Peccato che di enocione, questi animali, hanno davvero poco o niente. O meglio, indagando più a fondo si è scoperto che si tratta di lupi grigi (Canis lupus) con una manciata di modifiche genetiche pensate per renderli, almeno in apparenza, un po' più simili all'enocione (Aenocyon dirus), un canide realmente esistito ed estinto circa 10.000 anni fa. Non è un vero ritorno alla vita, è più un cosplay molecolare ricostruito con apparenti richiami all'aspetto di quelli che alcuni immaginano potessero essere gli enocioni estinti: grossi lupi bianchi.
Eppure l'azienda li presenta come se fosse la prima, vera, innegabile de-estinzione della storia. Ma anche ammesso – per assurdo – che avessimo davvero ricreato un enocione al 100% identico a quello estinto, non sarebbe comunque la prima volta. Perché l'animale che abbiamo davvero de-estinto per primo, e per ora anche per unico, non è un canide preistorico. È uno stambecco, tornato in vita dopo l'estinzione per una manciata di minuti grazie alla clonazione. Lui è stato de-estinto per davvero, ma è anche l'unico a essersi estinto due volte.
Questa è la storia del bucardo, o stambecco dei Pirenei. Ed è una storia che parla di estinzione, di clonazione, di fallimenti e di un lampo fugace di ritorno alla vita durato pochi minuti e che in molti hanno ormai dimenticato.
Il fantasma di Celia, l'ultimo bucardo

Tutto comincia con Celia, una femmina di stambecco dei Pirenei o bucardo (Capra pyrenaica pyrenaica), una sottospecie di stambecco iberico storicamente diffusa dai Pirenei francesi e spagnoli fino alla Navarra e alla Catalogna settentrionale. Un tempo ce n'erano a migliaia sulle montagne francesi e spagnole, tanto che venivano comunemente cacciati e le sue pelli usate dai pastori locali come abiti da lavoro. Poi arrivarono i fucili e il desiderio di possedere le sue corna. E in meno di un secolo, il bucardo scomparve da buona parte del suo areale storico.
Nella seconda metà del XX secolo sopravviveva solo una piccola popolazione nel Parco Nazionale di Ordesa, nei Pirenei centrali spagnoli. Nel 1981 ne rimanevano circa una trentina. Nel 1993, durante un disperato tentativo di censimento e recupero, ne vennero trovati in tutto solo una decina. Nel 1997 appena due, una femmina e un maschio, che morì di vecchiaia due anni dopo. A quel punto la sottospecie era già funzionalmente estinta: anche se fossero rimasti altri individui qua e là, non potevano più riprodursi. Era solo questione di tempo. Lo stesso identico destino che attendono oggi le ultime due femmine di rinoceronte bianco settentrionale.
Celia è stata l'ultima a rimanere in vita, ma morì il 5 gennaio del 2000, schiacciata da un albero abbattuto da una nevicata. Aveva tredici anni e la sua morte segnò così la fine ufficiale della sua sottospecie. Ma prima che il silenzio della montagna accompagnasse l'ennesima estinzione firmata da Homo sapiens, qualcuno decise di provare un'ultima disparata carta da giocare: la clonazione. Aveva funzionato per la prima volta con Dolly proprio pochi anni prima, perché non tentare pure con Celia?
Clonare la morte e sconfiggere l'estinzione per pochi minuti

Era comunque un'idea molto azzardata, perlomeno nel 2000. Clonare oggi è ancora un processo complesso e incerto, figuriamoci allora. Ma diversi scienziati ci stavano pensando da tempo e un team di ricercatori spagnoli e francesi decise di provarci. Fortunatamente, un anno prima che Celia morisse, furono prelevate alcune sue cellule dalla cartilagine di un orecchio e vennero crioconservate in azoto liquido proprio per questa evenienza. Quelle cellule, pochi anni dopo, vennero usate per creare 497 embrioni coltivati in laboratorio.
Di questi, 154 furono poi impiantati in 44 femmine scelte tra stambecchi iberici appartenenti ad altre sottospecie e ibridi tra capre domestiche e stambecchi. Solo cinque femmine, però, rimasero gravide. E solo una di queste riuscì a portare avanti la gravidanza fino al termine. E così, il 30 luglio 2003, in una clinica veterinaria, venne praticato un parto cesareo per ridurre al minimo ogni rischio. Dentro quell'utero c’era una capretta di stambecco identica a Celia, il primo e unico clone mai ottenuto da un animale estinto. Aveva funzionato ed era viva, ma qualcosa andò storto e appena nata stava già morendo.
I veterinari provarono di tutto per salvarla, ma la capretta appena tornata nel mondo nei vivi non riusciva a respirare. Aveva una malformazione al polmone sinistro, una complicazione non così rara e riscontrata anche in alcune pecore clonate. Dopo pochi minuti – sette secondo per alcuni, dieci per altri – la piccola appena nata smise di muoversi. Lo stambecco dei Pirenei era tornato davvero dall'estinzione, ma era anche già sparito. Di nuovo. Estinto per la seconda volta.
Il primo (e ultimo?) animale de-estinto

Tecnicamente, quello del bucardo è stato il primo vero caso di de-estinzione completa mai riuscito: da una sottospecie biologicamente ormai scomparsa, è stato infatti ricreato un individuo geneticamente identico, come hanno confermato anche le analisi successive del suo DNA. Non era un parente stretto, non un incrocio somigliante, non un surrogato come i lupi prodotti da Colossal. Era proprio lei, il clone di Celia, Capra pyrenaica pyrenaica.
Ma questa resurrezione durò meno di quanto impieghiamo a preparare un caffè. Ed è probabilmente anche per questo che nessuno se ne ricorda più. E nonostante l'enorme valenza scientifica di questa operazione, lo studio e i risultati vennero pubblicato quasi in sordina solo il 1 aprile 2009, ben sei anni dopo, sulla non troppo prestigiosa rivista Theriogenology. Alcune cellule di Celia sono ancora conservate, ma la clonazione non fu mai più replicata. Oggi si potrebbe riprovare, probabilmente con minori difficoltà, ma la scienza, e forse anche l’opinione pubblica, ha lasciato definitivamente il bucardo al suo silenzio.
Di quella capretta clonata non resta altro che una foto scattata al suo corpicino disteso su un tavolo poco dopo la morte. Neppure gli scienziati e i ricercatori che l'hanno riportata in vita vogliono più parlare di quella storia, quasi come se volessero cancellarla. Lo racconta lo scrittore e giornalista scientifico Massimo Sandal nel suo libro La malinconia del mammut, dedicato proprio al tema delle estinzioni e delle de-estinzioni. Tutti hanno dimenticato Celia e il suo clone.
E allora, cos'è davvero la de-estinzione?

Il caso del bucardo ci dice qualcosa di scomodo, ma fondamentale. De-estinguere non è un gioco di genetica o un'operazione da miliardari alla Jurassic Park. Non basta somigliare a qualcosa. Non basta clonare. Non basta neppure riuscire a riportare in vita un corpo, se quel corpo è solo un fragile riflesso destinato, per un motivo o per un altro, a spegnersi prima ancora di poter davvero esistere e senza avere più un posto dove stare in questo mondo.
La vera de-estinzione, forse, non è neppure riportare indietro uno, dieci o cento individui, soprattutto se non sono altro che simulacri, parvenze fenotipiche di animali che non torneranno davvero mai più. Invece è, o almeno dovrebbe essere, ripristinare gli habitat e gli ecosistemi, ridare spazio e senso a una relazione spezzata con la natura e la biodiversità, far vivere non solo un animale, ma la sua storia, le sue relazioni con l'ambiente e il suo ruolo nel presente, oggi. E questo, per ora, non lo sa fare (o forse non lo vuole fare) nessuna azienda. Nemmeno Colossal.
Ma per sette o dieci lunghi minuti, nel luglio del 2003, quegli scienziati sono andati davvero molto vicini a riportare il bucardo di nuovo sui Pirenei, o perlomeno devono averlo immaginato e sperato vivamente. E quella corsa contro il tempo, anche se persa, è stata una delle imprese probabilmente più toccanti – e dimenticate – della storia della conservazione. Forse perché in realtà ci ricorda che, più di aver fallito nel riportare in vita un animale ormai estinto, a farci paura non è tanto questo fallimento, ma la nostra incapacità di non riuscire a conservare e a proteggere la biodiversità e la natura che stiamo perdendo. E ce lo ricorda ancora oggi anche la stessa Celia, tassidermizzata ed esposta al centro visite del piccolo comune di Torla-Ordesa.