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29 Ottobre 2024
15:54

I pitoni birmani possono mangiare prede molto più grandi di quanto pensiamo

I pitoni birmani possono mangiare prede molto più grandi di quanto pensassero gli scienziati. Riescono a farlo grazie alla capacità di usare il 93% dell'apertura massima delle mascelle. Questo potrebbe influire sull'impatto che hanno sugli ecosistemi dove sono considerati specie invasiva.

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Foto di Ian Bartoszek (Conservancy of Southwest Florida)

I pitoni birmani (Python bivittato) possono mangiare prede decisamente più grandi di quanto pensassero gli scienziati. La scoperta è stata oggetto di uno studio pubblicato sulla rivista Reptiles & Amphibians realizzato dai biologi del Conservancy of Southwest Florida, Ian Bartoszek e Ian Easterling, in collaborazione con Bruce Jayne dell'Università di Cincinnati.

La ricerca mirava a prevedere l'impatto di questi predatori sull'ecosistema in base proprio al consumo di prede. La capacità dei serpenti di ingerire animali molto più grandi di loro dipende dall'apertura massima che le loro mascelle possono raggiungere, ed è proprio questo ad essere oggetto dello studio.

Lo studio sull'alimentazione del pitone birmano

I ricercatori hanno misurato l'apertura massima di tre grandi pitoni birmani di dimensione compresa tra i 4 metri e 10 centimetri e i 5, 20. I pitoni birmani sono tra i serpenti più grandi del mondo e in tutto il sud e sud-est asiatico sono predatori all'apice della piramide alimentare. I protagonisti dello studio però vengono dal continente americano, dove sono una specie aliena invasiva, si tratta ciò di animali che si inseriscono all'interno di un ecosistema a loro estraneo dove non esistono meccanismi naturali di regolazione della popolazione.

Molto spesso i pitoni e altri rettili esotici vengono ritrovati in strada nelle città occidentali dopo essere stati abbandonati da persone che prima li hanno prima acquistati e poi abbandonati, causando gravi problemi alla fauna locale. Proprio la diffusione dei pitoni birmani come specie invasiva in Europa e nel continente americano hanno indotto gli scienziati a riflettere sul loro ruolo all'interno di questi nuovi areali.

Il serpente più più lungo dello studio infatti è stato catturato in Florida, ma ad attirare l'attenzione degli scienziati è stato il più piccolo. Questo individuo infatti è stato ripreso mentre mangiava un cervo coda bianca (Odocoileus virginianus) di 35 chili, e per farlo il pitone ha usato il 93% della sua apertura massima.

«I pitoni birmani in natura mangiano anche prede con dimensioni vicine al limite imposto dalla loro bocca, ma la frequenza con cui ciò avviene non è ancora stata stabilita», si legge nello studio.

I precedenti studi sui pitoni avevano attestato 22 centimetri come diametro massimo della bocca, tuttavia tutti gli individui dello studio avevano una bocca di 26 centimetri. Questa differenza influisce in maniera considerevole sulle dimensioni delle prede che possono mangiare e può aiutare i ricercatori a prevedere l'impatto che questi serpenti invasivi potrebbero avere quando si spostano in nuove aree e hanno accesso a nuove prede.

La dieta del pitone birmano e le conseguenze sull'ecosistema

A una grande pitone dalla grande bocca corrispondono grandi prede, con effetti ancora poco noti sull'ecosistema, come ha affermato Bartoszek: «L'impatto che il pitone birmano sta avendo sulla fauna selvatica nativa non può essere negato. Questo è un problema della fauna selvatica del nostro tempo per l'ecosistema delle Everglades».

Il Parco nazionale delle Evergaldes, in Florida, ha caratteristiche geografiche uniche: qui si trova il più grande ecosistema di mangrovie nell'emisfero occidentale e le paludi d'acqua dolce accolgono un ecosistema ricchissimo che ospita alligatori, aironi azzurri, garzette, e molti altri.

Al netto del timore che questi animali possono esercitare su di noi, bisogna ricordare che le persone non rientrano tra le loro prede convenzionali. Al contrario sono moltissimi i serpenti che vengono uccisi e catturati ogni anno dagli esseri umani, tanto che l'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN) lo inserisce nell'elenco delle specie vulnerabili.

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