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20 Gennaio 2025
18:29

Cosa sono i “punti ciechi della biodiversità”: la mappa della natura inesplorata

Un recente studio sui “punti ciechi della biodiversità” evidenzia carenze nei dati su flora e fauna in molte aree del mondo, specialmente in Africa e Sud America. I ricercatori chiedono digitalizzazione e investimenti.

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Ha senso oggi parlare di territori inesplorati sulla Terra? Già nel 1881 l'autore M. Venoukoff in un articolo pubblicato sulle pagine di Nature faceva i conti con un mondo per la gran parte noto, ad eccezione di quelle aree dell'Europa e dell'Asia all'epoca sconosciute agli occidentali come la penisola coreana, il Bosforo, la penisola Balcanica, e altre.

Oggi che il termine "esplorazione" è sempre più spesso accostata allo spazio, i ricercatori sono tornati con i piedi sulla Terra per illuminare i blindspot, i punticiechi della biodiversità animale e vegetale che ancora ci restano, e sono molti di più di quanti ci saremmo aspettati, come spiega in un video Prosanta Chakrabarty, autore senior del nuovo articolo apparso sulle pagine della rivista PeerJ .

Dallo studio, a prima firma del botanico Laymon Ball, è emerso che esiste un problema relativo sia ai luoghi per i quali mancano conoscenze condivise, sia al vocabolario in uso per identificarli. Lo stesso termine "inesplorato" rimanda a un immaginario colonialista e presuppone che un luogo non appartenga a nessuno fino a quando non viene conquistato dagli Occidentali. Allo scopo di superare questo cortocircuito, il team di Ball ha preferito il termine "punto cieco" per indicare quelle aree del mondo in cui il sapere sulla biodiversità non è ancora catalogato e accessibile.

Lo studio sui "punti ciechi della biodiversità"

Il team di ricercatori ha esaminato i registri delle collezioni di storia naturale relativi a piante, funghi, pesci d'acqua dolce, uccelli, mammiferi, anfibi e rettili, e ha evidenziato le aree del mondo di cui si hanno a disposizione pochissimi dati, quelle che un tempo sarebbero state definite "inesplorate".

Esistono regioni geografiche in cui ci sono relativamente pochi o addirittura nessun registro di storia naturale accessibile al pubblico e la maggior parte si trova in paesi le cui collezioni non sono digitalizzate.

I ricercatori hanno analizzato le posizioni GPS del network internazionale Global Biodiversity Information Facility (GBIF), che raccoglie in open access i dati relativi alla biodiversità globale. Ciò ha permesso di tracciare una mappa della densità delle collezioni naturalistiche. Le piante rappresentano la maggior parte delle collezioni (90,7%); seguite da funghi (3,0%); pesci (2,1%); erpetofauna (rettili e anfibi) (1,8%); uccelli (1,7%); e mammiferi (0,8%). Nella mappa, le zone in rosso rappresentano quelle con più campioni a disposizione, e in blu quelle prive di dati accessibili.

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Collezioni globali digitalizzate

Guardando ai singoli paesi e disaggregando i dati disponibili a seconda della classe animale emergono ulteriori differenze. Ad esempio, i dati disponibili per il Sud America sono più numerosi nelle regioni montuose e nei luoghi noti per essere hotspot di biodiversità. Questo schema, secondo gli scienziati, è probabilmente il risultato degli sforzi di raccolta nelle aree conosciute per la ricchezza di specie, e che sono anche relativamente accessibili.

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Il numero di collezioni globali di storia naturale in Sud America

Tuttavia il bacino amazzonico, una delle regioni più grandi e con la maggiore biodiversità del mondo, che ospita il 10% di tutte le specie di piante e vertebrati conosciuti, ha un campionamento inferiore tra i gruppi animali, e ampie sezioni dell'Amazzonia contano pochissimi campioni di piante, con dati del censimento botanico che coprono solo una porzione molto piccola della regione. In questo caso, ad aver influito possono essere stati sia la scarsa accessibilità dell'area sia i conflitti armati ancora attivi nella regione.

Secondo il Global Peace Index (GPI) che ogni anno classifica 163 Stati e territori indipendenti in base al loro livello di pace, ben sette degli undici Stati del Sudamerica hanno registrato un peggioramento delle condizioni di pace. Qui i gruppi armati trovano ampio spazio per proliferare e organizzarsi proprio grazie alla protezione fornita dalla foresta amazzonica.

Oggi sono in corso più conflitti armati che in qualsiasi altro momento dalla Seconda Guerra Mondiale e la natura è finita in fondo alla lista delle priorità dei governi, questo ha aggravato i problemi nella catalogazione. L‘impatto delle guerre sulla biodiversità, era emerso anche in occasione della Cop16 sulla biodiversità, come aveva spiegato a Fanpage.it la direttrice Conservazione del WWF Italia, Isabella Pratesi: «Alcuni Paesi stanno affrontando sfide come l'instabilità politica, le finanze insufficienti o la mancanza di dati per i piani nazionali a tutela della biodiversità. Solo un piccolo numero di Paesi ha presentato la revisione delle strategie e dei Piani d'azione nazionali per la biodiversità, la maggior parte ha fatto il minimo indispensabile – presentando solo gli obiettivi nazionali – mentre alcuni non hanno intrapreso alcuna azione».

Problemi che non si ritrovano solo in Sud America. Più di ogni altra regione, le aree "cieche della biodiversità" si trovano in Africa e riflettono l'instabilità politica e la scarsità di digitalizzazione delle collezioni di storia naturale locali.

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La Somalia, la Repubblica Centrafricana e vaste aree della Repubblica Democratica del Congo, dell'Angola e del Botswana sono importanti punti ciechi della biodiversità. La scarsità di collezioni in queste regioni può essere attribuita a una combinazione di fattori tra cui la storia coloniale, la mancanza di infrastrutture scientifiche e di supporto istituzionale, l'accessibilità geografica e l'instabilità politica storica e attuale.

In particolare, nell'Africa centrale si è verificato un importante declino delle collezioni durante i periodi di guerra. Inoltre, il Museo reale dell'Africa centrale, in Belgio, segnala 10 milioni di campioni biologici nelle sue collezioni provenienti dal Congo e dalle regioni adiacenti, ma solo una piccola percentuale, inferiore a 0,5 milioni è inserita all'interno del network internazionale Global Biodiversity Information Facility (GBIF).

L'appello dei ricercatori: illuminare i punti ciechi

Da qui l'appello dei ricercatori: «Chiediamo alle collezioni africane di unirsi al GBIF, ma chiediamo anche alle istituzioni al di fuori dell'Africa che hanno collezioni del paese di pubblicare i loro archivi. Alcuni musei occidentali potrebbero avere collezioni della regione che non sono ancora digitalizzate».

E infine: «Chiediamo ai musei di dare priorità alla digitalizzazione di quelle collezioni partendo dai "punti ciechi della biodiversità" e di aumentare i finanziamenti per i musei. Sosteniamo anche l'aumento delle infrastrutture scientifiche in modo che più collezioni di riferimento possano essere conservate nei paesi di origine, in particolare quei paesi che attualmente non hanno tali infrastrutture».

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