Il 24 novembre del 1974 è una data che ha cambiato per sempre il nostro modo di pensare all'evoluzione umana. In quel giorno, il paleoantropologo Donald Johanson e il suo studente Tom Gray scoprirono, tra le aride pianure nei pressi del villaggio di Hadar, in Etiopia, i resti di Lucy, il più famoso australopiteco mai ritrovato. Quella scoperta, accompagnata dalle note di Lucy in the Sky with Diamonds dei Beatles che risuonavano nel campo base, segnò l'inizio di una rivoluzione scientifica e culturale.
Lucy, il cui nome ufficiale è AL288-1, è una Australopithecus afarensis e il suo si rivelò un ritrovamento straordinario per la quantità e lo stato di conservazione delle sue ossa: circa il 40% dello scheletro completo. Questo fece di lei un tassello fondamentale per ricostruire il nostro passato evolutivo, svelando dettagli cruciali sulle caratteristiche fisiche e sullo stile di vita delle australopitecine, una delle linea evolutive più vicine a quelle del genere Homo, il nostro piccolo ramo sul grande albero della vita.
Un viaggio lungo 3,2 milioni di anni
Vissuta circa 3,2 milioni di anni fa, Lucy era alta appena 1,1 metri e pesava 29 chilogrammi. Il suo aspetto ricordava per certi versi quello di uno scimpanzé, ma con tratti già molto vicini all'uomo. La struttura delle sue gambe e del bacino rivelava infatti che poteva camminare in posizione eretta, un passaggio cruciale nella nostra storia evolutiva. Allo stesso tempo, le sue braccia lunghe e la conformazione del torace suggerivano che fosse ancora molto abile a muoversi tra gli alberi.
Questa duplicità, tra terra e cielo, la rende un esempio perfetto di transizione evolutiva. Lucy rappresenta una specie che si adattava a un mondo in cambiamento, quando le savane aperte stavano prendendo il posto delle fitte foreste. La sua dieta, probabilmente a base di vegetali, era indicata dalla forma della mandibola e dai segni sui denti. Le forti mascelle erano adatte a masticare foglie e altri cibi duri, confermando un adattamento alle risorse disponibili in un ambiente in rapida evoluzione.
La morte di Lucy rimane avvolta nel mistero. Sebbene fosse una femmina adulta nel pieno della sua età riproduttiva, con un'aspettativa di vita di circa 25 anni, la causa esatta della sua fine non è chiara e probabilmente non lo sarà mai. Non sono stati infatti trovati segni evidenti di traumi sulle ossa, ma alcune ipotesi suggeriscono che potrebbe essere caduta da un albero, ma questa ipotesi non è condivisa da tutti gli esperti.
Un'eredità che sarà per sempre immortale
Quando fu scoperta, Lucy fu celebrata come il famoso "anello mancante" tra i primati e l'essere umano moderno. Oggi, tuttavia, sappiamo che questo concetto è ormai superato. L'evoluzione umana non è una scala lineare verso la "perfezione", ma un intricato cespuglio di specie diverse, spesso conviventi, che si sono evolute, incrociate e talvolta estinte. Lucy non è quindi un passaggio obbligato verso l'Homo sapiens, ma uno dei tanti rami dell'albero evolutivo.
Tuttavia, ciò non toglie l'enorme valore che ancora ricopre per la scienza e non solo. La sua importanza sta nel mostrarci come la nostra storia sia fatta di adattamenti e casualità, non di progressi preordinati. Conservata al Museo Nazionale dell'Etiopia ad Addis Abeba, Lucy non è infatti solo un fossile a noi vicino, ma un simbolo universale. Ha ispirato mostre, documentari e persino il cinema, come nel caso del film Lucy di Luc Besson.
La sua storia ci ricorda quanto sia straordinaria e complessa la nostra origine, e quanto ancora abbiamo da imparare su di noi e sul nostro posto sul grande albero della vita. Celebrando i 50 anni dalla sua scoperta, Lucy continua a rappresentare un ponte tra il passato e il presente, una finestra unica su un tempo in cui camminare eretti su due gambe era un "gesto" evolutivo rivoluzionario. E mentre guardiamo ai suoi resti, non possiamo che chiederci quanto del suo mondo portiamo ancora con noi, nei nostri passi quotidiani.