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Italia: per ripartire non basta il fisco, ecco perchè

La leva fiscale resta strategica, ma senza un attento “fact checking” delle risorse disponibili rischia di non riuscire a evitare ulteriori fughe di aziende dall’Italia…
A cura di Luca Spoldi
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Che l’economia italiana debba tornare a registrare incrementi del Pil meno che frazionali se non altro per consentire al paese di rispettare i trattati internazionali sottoscritti in sede europea senza impiccarsi a ripetute e crescenti “manovre correttive” fatte solo di tagli alla spesa (che visto la composizione percentuale della stessa non potrebbero che andare a toccare sanità e previdenza pubblica) o, peggio, di aumenti d’imposta (già a livelli da Nord Europa, a fronte di servizi pubblici che non sono minimamente paragonabili a quelli di tali paesi) è evidente. Che la leva fiscale possa essere una delle leve strategiche per consentire di attrarre investimenti, o quanto meno smettere di perderne, è altrettanto palese, ma non è detto possa bastare.

Se è vero che buona parte dei motivi che stanno dietro al trasferimento della sede legale e fiscale di importanti imprese, da Fiat a Yahoo Italia, si lega proprio all’eccessivo peso fiscale complessivo che in Italia grava sul reddito d’impresa (in particolare il famigerato cuneo fiscale, che penalizza tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori, ma certo anche il livello di accise che grava su voci come energia, benzina, polizze assicurative o risparmio, non contribuisce a rendere più agevole la vita delle imprese, specie di piccola e media dimensione), è purtroppo altrettanto chiaro che non sarà facile rimodulare verso il basso il carico fiscale nonostante gli auspici formulati dall’attuale premier nel documento programmatico “Impegno Italia”.

Nel documento si ricorda come la Legge di Stabilità 2014 abbia già stanziato “2,6 miliardi di euro per la riduzione del costo del lavoro nel 2014” e che “nel corso del 2015 il taglio salirà a 2,9 miliardi” e che nell’ambito di Impegno Italia il governo (sempre che non venga “staffettato” nel frattempo, come invece sembra imminente) intende “ampliare gli spazi di bilancio per rendere possibili nuovi e più significativi interventi” senza peraltro “aumentare le tasse su imprese e famiglie” grazie a una revisione ed efficientamento della spesa pubblica (tramite riduzione di costi ed eliminazione di sprechi) “di almeno 3 miliardi nel 2014 e 10 miliardi nel 2015”.

Ma, sottolinea l’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè anche su Twitter, “la forma è ottima, ma  i numeri di Impegno Italia non tornano”, finché quanto meno non si dettagliano i risparmi di spesa e le entrate aggiuntive legate alla patrimoniale. Mentre Carlo Stagnaro chiosa: “Sul fisco Impegno Italia è, in teoria, perfetto: pone un obiettivo ambizioso ma ragionevole di riduzione della tassazione sul lavoro (4,5 miliardi di euro nel 2014) e intende semplificare il sistema tributario riducendo numero e complessità degli adempimenti. Insomma: finalmente il governo ha letto “doing business”. Anche qui, però, viene da chiedersi se siano le stesse persone che, nei mesi passati, hanno fatto esattamente il contrario (come nella tassazione sulla casa)”.

Vorrei solo aggiungere che, tanto più in tempi di crisi che tendono ad aumentare i buchi nei bilanci pubblici più che a ridurli (perché mentre il gettito fiscale, ceteris paribus, tende a scendere, le spese legate ad ammortizzatori sociali tendono a salire, mentre gli eventuali risparmi di spesa sugli interessi sul debito, pur preziosi, non bastano ad evitare l’aumento del debito stesso finché i tassi rimangono superiori al tasso di crescita nominale del Pil), non è detto che la “burocrazia”, tante volte giustamente esecrata ma che in qualche caso fa bene a fare il suo mestiere, dia il via libera a provvedimenti che traducano in atti concreti queste nobili intenzioni (come avvenuto di recente in tema di sospensione delle cartelle esattoriali per imprese che vantino crediti verso la pubblica amministrazione).

Di più: come dimostra la vicenda che coinvolge Fiat-Chrysler da una parte e il governo canadese dall’altra e che riguarda la sopravvivenza o meno della fabbrica di Windsor (in Ontario), dove 5 mila dipendenti sono impegnati nella produzione di minivan, non è detto che bastino liquidità e incentivi fiscali (nel caso specifico il ministro delle Finanze canadese, Jim Flaherty, ha detto di avere a disposizione 500 milioni di dollari canadesi, circa 455 milioni di dollari Usa, per le case automobilistiche che investiranno in Canada) a trattenere le aziende. A meno che non siano molto consistenti, naturalmente.

Sergio Marchionne, che come “pokerista” si è fatto una reputazione, continua infatti a dire che una soluzione non è vicina e secondo fonti giornalistiche starebbe per vincere questa ennesima partita, ottenendo dal governo canadese fino al 20% di quei 2,6 miliardi che ha promesso di investire per rimodernare l’impianto di Windsor (più un altro miliardo per rimodernare quello di Brampton, dove sono assemblate berline come la Chrysler 300). Se passasse questa linea anche in Italia, Letta e Saccomanni, o più probabilmente i loro successori, dovrebbero trovare risorse per almeno 1,5-2 miliardi di euro solo per cofinanziare gli investimenti di Fiat (che dovrebbero oscillare tra gli 8 e i 9 miliardi, ma i dettagli saranno resi noti solo con l’aggiornamento del Piano industriale del gruppo dopo l’approvazione dei risultati del primo trimestre, a inizio maggio).

All’incirca quanto una rata di Imu, per riuscire a evitare la quale si è andati avanti per mesi con le più disparate ipotesi, e si tratterebbe solo di trattenere una singola, sia pure importante, azienda. No, decisamente la leva fiscale è certamente strategica, ma da sola non basterà a rilanciare il paese, per mancanza di risorse spendibili e forse di credibilità dei governi italiani che ne promettono da troppo tempo l’utilizzo apparentemente senza neppure affidarsi a un “fact checking” preventivo da parte, ad esempio, della Ragioneria generale dello stato. Un peccato, perché è tra i pochi organi “burocratici” che dimostra di saper ancora svolgere il suo mestiere e andrebbe sfruttato per dare concretezza alle belle speranze.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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