Mentre l’espediente dei “saggi” trovato dal presidente Giorgio Napolitano di nominare due “mini-bicamerali” da 5 componenti ciascuna, sostanzialmente riconducibili a Pd, Pdl e Scelta Civica (restano per ora esclusi i rappresentanti di M5S, autoesclusisi da ogni “gioco” a colpi di “no”) lascia perplesso più di un analista, tra analisi diametralmente opposte dell’iniziativa (che per alcuni mira a favorire il futuro insediamento di un governo “di larghe intese” Pd-Pdl in grado di portare a compimento un sia pur minimo ma importante programma di riforme economiche e legislative a cominciare dalla legge elettorale, per altri è solo un modo per superare l’appuntamento con l’elezione del successore di Napolitano di fatto rendendo inutile il “governissimo” e possibile il ricorso a nuove elezioni anticipate a giugno o più probabilmente a ottobre), e mentre da aziende come Fiat giunge l’ennesima conferma che, per ora, con una domanda interna massacrata dalla repressione fiscale fortemente voluta dalla Germania l’unico modo di far crescere gli utili è affidarsi ai mercati esteri (come può fare il gruppo di Torino grazie a Chrysler, che anche a marzo registra vendite in crescita del 5% a quota 171.606, con 3.807 Fiat500 immatricolate, dato che porta a 9.612 il numero delle “piccole” di casa Fiat vendute negli States da inizio anno), proprio dagli Usa giunge una inaspettata conferma dell’appeal che il Belpaese continua a esercitare sugli investitori esteri, nonostante la malapolitica, il fisco opprimente, la burocrazia soffocante, la mafia, la pizza e il mandolino.
Scrive infatti il Wall Street Journal che nonostante l’assenza di un governo e il rischio di un downgrade da parte di Moody’s dei nostri titoli di stato, il momento è propizio per chi voglia scommettere su una ripresa della nostra economia. Sarebbe, insomma, tempi di saldi e poco conta se a comprare saranno gruppi industriali come Ppr o Lvmh che sembrano contendersi in queste settimane la quota di controllo di un marchio affermato dell’oreficeria italiana come Pomellato, o se si tratterà di investitori istituzionali o retail pronti a buttarsi direttamente o indirettamente (tramite indici, Etf, fondi comuni o Sicav) sulle migliori aziende tricolori quotate a Piazza Affari. Secondo il quotidiano finanziario americano, infatti, l’Italia “looks cheap”, sembra a buon mercato. E siccome da fine febbraio a oggi le tensioni politiche (e la concomitante crisi di Cipro) hanno fatto calare le quotazioni azionarie (e dei titoli di stato) italiane, si può ora scommettere su un successivo recupero e approfittare dei prezzi scontati . Premessa fondamentale, naturalmente, è che, vuoi per l’interesse già apertamente manifestato tanto dagli Stati Uniti quanto dalla stessa Germania affinché l’Italia non vada a gambe all’aria (né tanto meno esca dall’euro), vuoi per la capacità dimostrata della nostra economia di sopravvivere ai suoi mali di fondo, dalla seconda metà dell’anno si veda finalmente qualche segnale di ripresa.
Una ripresa che per la verità resta alquanto evanescente finora, visto che (come ammette lo stesso Wall Street Journal), la situazione è “realmente complicata” e perfettamente fotografata da un calo degli indici di Milano attorno all’8% da inizio anno (contro un lieve recupero degli altri listini europei, in media del 2% da inizio 2012). Che l’Italia abbia una notevole dose di vitalità “nonostante” la sua cattiva classe dirigente è cosa che abbiamo ripetuto più volte, anche di recente. Che le migliori aziende italiane abbiano un grande mercato e ogni volta che qualche asset di pregio viene posto sul mercato trovi facilmente numerosi estimatori pronti ad aprire il portafoglio è altrettanto noto e pure ve l’ho raccontato più volte (pensate ai casi della Ducati, acquisita da Volkswagen-Audi, al passaggio di Avio a General Electric o alle ripetute dichiarazioni di “stima” del fondo Vince Knight nei confronti di Saipem). Che però ora più che in altri momenti sia opportuno investire sul mercato azionario italiano sembra più un tema giornalistico che un reale spunto operativo e tale rischia di esserlo ancora per un pezzo. Perché è vero, l’economia italiana ha saputo “sopravvivere” alla sua classe “digerente”, ma proprio questa ha costituito uno dei freni più forti all’innovazione del paese. Che dunque continua a scontare sostanziali gap nei confronti dei principali competitor e a lasciar marcire milioni di persone (in gran parte donne e giovani) in attesa di un lavoro.