Solo ieri ricordavo come il problema storico di questo paese, a parte l’idra a tre teste corruzione-evasione-burocrazia, a parte forme di capitalismo familiare arcaiche che portano i “figli di” a poter accedere a opportunità che gli altri loro “choosy” compagni di leva debbono nella maggior parte dei casi scordarsi, fosse la carenza di capitali in misura adeguata a supportare la crescita delle aziende e lo stato sociale che abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni e che se non verranno introdotte ulteriori riforme rischia di diventare una “rendita di posizione” di coloro che sono riusciti per tempo a goderne i benefici e trasformarsi in una chimera per una vasta schiera di ragazzi che il governo Monti cerca di indurre a rassegnarsi ad accettare una forma di precarietà “ab eterno” che non giova a nessuno.
La mancanza di capitali adeguati, ulteriormente esacerbata dalla contemporanea stretta sia fiscale sia creditizia acuisce le disparità sociali e crea incertezza futura che si riflette anche in un costante deterioramento del presente, allo stesso modo in cui le distorsioni indotte dalla crisi del debito sovrano europeo acuiscono le distorsioni tra i paesi membri della Ue rischiando di portare alla disgregazione del progetto comunitario, ipotesi contro cui sembra battersi molto più la Bce di Mario Draghi che non la politica europea, ostaggio di un egemone tedesco che in vista delle elezioni del prossimo anno continua a tenere sulla corda i “PIIGS” perché l’atteggiamento intransigente piace all’elettorato tedesco e finisce col favorire banche, imprese e conti pubblici della Germania.
Non sarà un caso, una ricerca di Deutsche Bank segnala in questi giorni come nonostante i buoni progressi messi a segno dai PIIGS dallo scoppio della crisi ad oggi, su un punto ancora ci sia una forte divergenza che in qualche modo andrà sanata, il costo del lavoro. Dati alla mano, fatto 100 il clup (costo unitario per unità di prodotto) del 2000, la “virtuosa” Germania è nel frattempo salita a 110, mentre per i PIIGS si stima (siamo dunque nel campo delle ipotesi, non delle certezze) che nel 2013 si oscilli tra 118 e 130; nel caso di Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo tuttavia, il clup continua a calare dopo aver raggiunto una divergenza massima nel 2008, prima dello scoppio della crisi finanziaria mondiale seguita al crollo di Lehman Brothers, nel caso dell’Italia siamo rimasti circa agli stessi livelli. La spiegazione degli analisti tedeschi? In Italia non si sarebbe creata quell’enorme disoccupazione che negli altri paesi citati ha portato ad un brusco ribasso del costo del lavoro.
Tesi interessante che però non tiene conto che il costo del lavoro incide per meno del 10%, in media, in rapporto al fatturato di un’azienda e che per valutare la competitività di un soggetto economico occorre tener conto della sua capacità finanziaria. Capacità che deriva dalla somma dei mezzi propri (il capitale sociale) e dei mezzi di terzi (in sostanza il debito, quasi sempre bancario). Ora, in un paese povero di risorse (e quelle poche concentrate in pochissimi frequentatori di “salotti buoni”) e dove le banche hanno forse concesso troppo credito negli anni passati (molto ci sarebbe da dire sul come e a chi sia stato concesso) ed ora stanno riducendo il proprio perimetro di attività sia per ridurre la propria esposizione al rischio sia per rispettare parametri patrimoniali rigorosi (e sacrosanti), imposti però con una tempistica a dir poco infelice (mal comune mezzo gaudio, la stessa cosa sta avvenendo con diversa intensità in tutta Europa), concentrare l’attenzione sul costo del lavoro e non sulla carenza di capitali è quanto meno fuorviante (e lascia spazio a dubbi maliziosi circa la volontà di approfittare alla prima occasione della circostanza, acquisendo a poco prezzo le migliori aziende e marchi italiani).
Si può ovviare a questa carenza e far ripartire l’Italia? Possibilmente evitandone la svendita in saldo, in molti casi già avvenuta per colpa di banche e aziende italiane: solo oggi il presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha ammesso che la vendita di Borsa Italiana a Lse non ha portato a rilevanti benefici in termini di maggiori scambi sul listino di Milano, anche perché le banche italiane socie di Borsa Italiana Spa, che al momento della fusione, nel 2007, erano entrate in possesso complessivamente del 38% del capitale del nuovo gruppo, hanno poi venduto alla spicciolata le quote per far cassa e pesano ormai solo il 3,5%. La stessa cosa si potrebbe dire di molte, troppe cessioni avvenute in un passato ancora recente (vedi il caso Parmalat), sempre a causa vuoi di errori strategici, vuoi della limitata forza finanziaria delle nostre imprese, vuoi del prevalere di interessi particolari e non sempre cristallini su quelli più generali.
Mario Monti ci prova a colpi di riforme che però, dovendo passare per quello stesso parlamento espressione delle mille lobbies che hanno ridotto il paese allo stremo, non sembrano in grado di portare a particolari risultati né a breve né a medio termine (e sono state accusate anche da fonti autorevoli come la Banca d’Italia di non essere particolarmente eque). Io suggerisco sempre di guardare in avanti, di investire in innovazione, competenza, know-how, di dare spazio ai giovani, di provare a imitare le best practices estere anche nel campo del co-working e del crowd-sourcing, di impararea far fruttare meglio il capitale di cui l’Italia è ricca, il suo patrimonio artistico. Indietro non possiamo più tornare nonostante la nostalgia di tanti, dove stiamo ora non mi pare sia una situazione desiderabile dato che toglie ogni giorno di più serenità e speranza alla maggior parte dei cittadini italiani (e quindi mette a rischio il futuro andamento di consumi, investimenti, produzione e finanche entrate fiscali). Servono nuove ricette e servono in fretta, l’impresa è difficile ma non impossibile a patto che non ci si illuda di essere già quasi arrivati alla meta, come sembrano fare (forse per l’avvicinarsi delle elezioni della prossima primavera) troppi leader politici (e non) italiani.