C’è un filo sottile ma significativo che lega il lento abbandono di Mare Nostrum allo sgombero del Centro di accoglienza di Tor Sapienza: il segno del cedimento dello Stato al sentimento del Paese, o meglio, di una parte di esso. È il risultato di un processo in fermentazione da tempo e che era stato declinato in modo bislacco e confusionario dalla “rivoluzione” dei forconi (con qualche differenza, certo): lo Stato che legittima il coacervo di rivendicazioni e isterismi provenienti da quella che solitamente si definisce (non senza un certo pressappochismo) la “pancia del Paese”. Per giunta, chi si è preso la responsabilità di tali decisioni finge di ignorare che, come ha notato Anna Maria Rivera sul Manifesto, a “socializzare, manipolare, deviare il rancore collettivo c’è sempre qualche attore politico: di destra e di estrema destra, solitamente”. Insomma, oltre all’indubbio valore simbolico (oltre che all’impatto nella vita delle persone che occupavano il centro o delle migliaia di migranti ai quali non sarà più fornita assistenza oltre la linea di Schengen), siamo di fronte ad una scelta politica chiara e definita: tutto può essere subordinato alle dinamiche del consenso (Monica Fabris su GliStatiGenerali spiega bene quanto, ad esempio, conterà la linea sulla "questione zingari").
E così la rabbia e l’indignazione dei cittadini, coltivate prima e pilotate poi dalla politica, hanno la meglio su buonsenso, dignità ed umanità. E così lo Stato finisce per guardare con sufficienza ad una conflittualità sociale alimentata da superficialità e allarmismi, informazioni distorte e parziali (quando non vere e proprie bufale), speculazioni e anche interessi economici. La scelta, più o meno consapevole, segue sempre lo stesso canovaccio, del resto: in momenti di grande crisi, economica e culturale, prevale la logica del “nemico comune”, del capro espiatorio, dello sfogatoio collettivo.
Il punto è però che di fronte a questa contromobilitazione spesso ci si ritrova inermi, quasi complici. E magari si ripescano considerazioni sull’incapacità “delle istituzioni e della classe politica di proporre soluzioni serie e di prospettiva”, sulla comunanza delle difficoltà di “italiani, immigrati, rom”, le cui esistenze sono frullate insieme ed etichettate come “nuovi poveri”, sulla esistenza di un disagio reale nelle periferie e nelle zone degradate e sulla effettiva pericolosità di alcune “situazioni a rischio”. Tutte cose anche giuste, al limite. Ma che non colgono la complessità e la pericolosità raggiunte dai processi in atto, soprattutto perché si omette la rilevanza del ritorno di elementi come l'appartenenza etnica o religiosa all'interno del conflitto sociale.
Perché non ci sono ragioni, odio o insofferenza, tali da giustificare un pogrom verso immigrati e rom, non ci sono motivi accettabili per l’assalto ad un centro accoglienza, non c’è disagio che tenga di fronte all’ipotesi di giustizia sommaria. Non in uno Stato democratico e civile, almeno (in cui peraltro il monopolio della forza non dovrebbe nemmeno essere in discussione).
E non ci sono motivazioni di ordine economico o politico che tengano di fronte alla prospettiva di lasciare migliaia di disperati al loro destino, in alto mare, in balia dei flutti e della follia degli scafisti. Mare Nostrum costa molto? E se anche fosse (e non lo è, come vi abbiamo dimostrato), può ciò costituire una ragione sufficiente a mettere da parte umanità e solidarietà?