Un’intelligenza artificiale sta cercando di parlare con i capodogli (e potrebbe riuscirci)
Oggi, i big data e il machine learning, potrebbero sondare una frontiera impenetrabile: l'abisso. È una delle tante sfide della tecnologia avanzata, che rende così sottile il confine tra immaginazione e realtà. Entro il 2026 potremmo parlare con i capodogli grazie a un nuovo progetto che utilizza l'intelligenza artificiale (IA) per decifrare il vocabolario dei cetacei. Tutto nasce dall’ambizioso obiettivo del gruppo CETI, una Ong fondata nel 2017 che vuole rispondere a questa domanda: l’IA può decifrare il linguaggio di questi mammiferi marini? Sembra di sì. Gli scienziati infatti vogliono decodificare i suoni emessi dai capodogli e provare a comunicare con loro.
Perché sono stati scelti i capodogli?
Secondo gli studi sembra che i capodogli abbiamo una modalità di comunicazione complessa. Una specie di codice Morse. Non emettono semplici suoni, ma click brevi e separati tra di loro. Per gli esperti questa struttura di linguaggio rende più semplice l’interpretazione dei loro richiami. A spiegarlo è la professoressa Joy Reidenberg, scienziata che da anni studia i cetacei: "Questo è l'inizio della biologia aumentata, dove le nostre carenze umane, quello che non riusciamo a percepire, dove non possiamo arrivare, sembrano cadere tutte”.
Come funzionerà il progetto
Aza Raskin e Britt Selvitelle, due imprenditori della Silicon Valley, stanno lavorando all’ Earth Species Project (ESP), un Google Translate per i cetacei. David Gruber, biologo marino, guida la Cetacean Translation Initiative (CETI), per riuscire non solo a decodificare il linguaggio dei mammiferi marini, ma comunicare con loro. Il gruppo è composto da specialisti di robotica marina, biologi di cetacei, esperti di intelligenza artificiale, professori di linguistica, crittografia e specialisti di dati. Un team enorme che raccoglie intorno a sé l'elite dell’Imperial College, del Mit, e di Harvard.
Nel mare dei Caraibi sono state installate più stazioni di ascolto subacquee, droni che trasportano idrofoni, pesci robotici che raccolgono audio e video. Tutto questo per raccogliere il più grande set di dati animali mai registrato. Le ricerche copriranno un raggio di 20 chilometri, raccogliendo 24 ore su 24 tutte le informazioni necessarie per classificare i cetacei e il loro modo di comunicare.
Poi arriva il momento dell’IA. Analizzeranno i modelli raccolti, cercheranno elementi costitutivi del sistema di comunicazione, ascoltando i cuccioli di capodoglio impareranno ad assimilare il linguaggio dei capodogli. L’obiettivo è costruire un modello funzionante del sistema di comunicazione. Per testarlo verranno costruite chatbot di cetacei, i ricercatori per esempio, attraverso esperimenti cercheranno di riprodurre le “conversazioni” registrate per capire se innescano sempre le stesse risposte. Una specie di prova del nove.
Cosa succederebbe se riuscissimo a parlare con gli animali?
Sul tema Tom Mustill, scrittore e documentarista che ha pubblicato “Come parlare balena: Un viaggio nel futuro della comunicazione animale”, ha messo in luce uno dei tanti problemi connessi al fenomeno. Se infatti iniziassimo a comunicare con gli altri animali, il rischio di manipolazione sarebbe reale. “I piccioni potrebbero portare malattie ai nemici o le tartarughe migratorie incaricate di consegnare farmaci su una costa lontana”, spiega Mustill, “mi rincuora che i dati sia di ESP, sia di CETI siano open source, l’apertura è il miglior antidoto contro lo sfruttamento”. È altrettanto probabile che la possibilità di comunicare con gli animali inneschi profondi cambiamenti nella percezione stessa degli esseri viventi “non umani”. Basti pensare ai diritti degli animali.