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Tutti pazzi per l’ADHD, lo psichiatra: “Cosa fare se pensate di essere neurodivergenti” 

Nell’immaginario collettivo il disturbo da deficit di attenzione/iperattività è ancora qualcosa di confuso. Sui social spuntano test fai da te, autodiagonsi, e viene trattato come un disturbo quando non lo è. Per orientarci meglio sul terreno delle neurodivergenze abbiamo parlato con lo psichiatra Roberto Pagani.
Intervista a Roberto Pagani
Psichiatra
A cura di Elisabetta Rosso
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Fino a qualche anno fa l'identikit di un ADHD era macchiettistico: il bambino disattento e agitato che non sa stare seduto su un banco. Poi i nuovi studi hanno portato a galla un fenomeno più complesso e articolato. Di conseguenza il numero delle diagnosi è aumentato in tutte le fasce d'età. Come spesso succede di riflesso è anche scattata una febbre di autodiagnosi che ha preso forma soprattutto sui social. C'è chi riduce la disattenzione all'ADHD, chi l'iperattività, chi fa un test trovato su Google e decide di avere un disturbo da deficit di attenzione semplicemente perché ha perso le chiavi di casa due volte nell'ultimo anno.

Per orientarci meglio tra autodiagnosi fuorvianti urlate alla telecamera intera e una neurodivergenza che viene chiamata disturbo quando disturbo non è, abbiamo parlato con Roberto Pagani. È uno psichiatra specializzato in ADHD, a lui stesso è stato diagnosticato e ha aperto un profilo social su TikTok per raccontare meglio l'ADHD e depatologizzare le neurodivergenze.

Partiamo dalle basi, mi darebbe una definizione di ADHD?

Ti direi, partiamo proprio dal termine: disturbo da deficit di attenzione/iperattività. Disturbo è già fuorviante perché non c’è un deficit ma un modo diverso di dirigere l’attenzione. Verso ciò che emoziona stimola, più di un neurotipico, invece c’è una grande difficoltà verso ciò che non suscita un'attivazione emotiva. Non solo, coinvolge anche il modo in cui processiamo le informazioni, i pensieri, le emozioni. Tendenzialmente c'è anche una risposta comportamentale molto più rapida, da qui magari l'impulsività.

Un tempo si pensava che colpisse solo i ragazzi giovani o i bambini, quelli che non riuscivano a stare fermi in classe. Oggi il numero di diagnosi sta aumentando rapidamente in tutte le fasce d'età, cosa è successo?

L’ADHD c’è sempre stata, ora però la comunità scientifica ha più strumenti per identificare i casi anche quando non ci sono manifestazioni estreme. C'è anche un accesso all'informazione più alto quindi le persone sono più consapevoli e scelgono di fare approfondimenti diagnostici.

Anche a lei è stato diagnosticato, giusto? 

Esatto.

Come l’ha scoperto?

Ero già un adulto, dopo la specializzazione, nonostante io fossi laureato in medicina e psichiatria. Diciamo che mi sono rispecchiato in alcuni tratti e ho deciso di fare un approfondimento diagnostico.

Come ha reagito?

Io ho reagito con entusiasmo alla diagnosi, non ho uno stigma, anche per via della mia professione. Ho pensato: finalmente ho una bussola per capire tanti miei schemi mentali a cui non riuscivo a dare una spiegazione. Comportamenti che avevo etichettato nella maniera sbagliata per anni e avevo messo dentro la mia personalità una visione di me stesso che in realtà era totalmente fuorviata.

Ecco tu avevi gli strumenti. Cosa succede a chi viene diagnosticato ma non ha il tuo background professionale?

Eh, lo stigma e la patologizzazione fanno molti danni. Prima di tutto allontana le persone dalla diagnosi perché nessuno vuole sentirsi malato. Anche i genitori spesso scelgono di non portare i figli per paura della diagnosi, quando l'infanzia sarebbe il momento migliore per scoprire l’ADHD, magari molti ritardano e solo dopo anni scoprono di avere una neurodivergenza.

Cosa significa scoprire l’ADHD da adulto? Come può impattare sulla vita?

Diciamo che non sempre è facile, anzi, può essere doloroso perché si mette in discussione la nostra personalità. Può creare problemi rispetto all’immagine che abbiamo di noi, di autostima, scopriamo infatti di aver dato un’interpretazione sbagliata a molti comportamenti. Anche magari momenti di ansia e depressione che in realtà erano legati al fatto che abbiamo sforzato la nostra natura perché ci dicevano di essere diversi, ci dicevano come reagire, come studiare.

Come diceva però ci sono però anche gli aspetti positivi. 

Sì, possiamo dare un'interpretazione diversa a tanti comportamenti. Chiaramente l’ADHD non è totalizzante, ci sono le caratteristiche della persona, dello stile di vita, tante cose ci influenzano, ma l’ADHD pesa comunque tanto, ed è importante considerare la neurodivergenza come un tassello insieme a tutto il resto.

Oggi molti si autodiagnosticano l’ADHD, per esempio diversi video sono diventati virali sui social, ecco cosa bisogna fare se si ha il sospetto?

Nessuno deve farsi autodiagnosi, nemmeno una persona formata. Intanto per via del confirmation bias, se penso di avere l’ADHD seleziono le informazioni che confermano la mia tesi e svaluto quelle contrarie. È un processo inconscio, io stesso che sono uno psichiatra e ho gli strumenti ho scelto un professionista esterno.

Ecco quindi chi ha il sospetto cosa deve fare?

Deve chiamare uno psichiatra o neuropsichiatra infantile o neuropsicologo formato per valutare appunto se si ha o meno l’ADHD.

Ecco molti tratti dell’ADHD sono, diciamo comuni, tutti sono più concentrati se qualcosa gli piace e meno se non gli interessa. Come si fa a distinguere?

È vero, cambia però il livello di intensità e pervasività, e soprattutto cambiano le conseguenze nella vita quotidiana. E poi bisogna anche considerare quanto è regolare, quanto continuativa. In generale vale sempre la pena andare ad approfondire.

Con questo nuovo interesse verso l’ADHD sono anche arrivati molti test fai da te che si trovano online… 

La cosa che mi spaventa è quando vengono considerati o spacciati per test diagnostici. Nessun test, neppure i più accurati possono essere diagnostici, al massimo test di screening che dicono attraverso un punteggio se può aver senso valutare di sentire qualcuno. In questo caso è positivo.

Le sottodiagnosi o le diagnosi errata dell'ADHD sono diffuse?

Allora è chiaro che una diagnosi non avviene con un test o con un incontro, ma è un processo molto più lungo dove si valutano più aspetti, una diagnosi viene fatta mettendo tante cose insieme. Nelle donne però per esempio è sottodiagnosticato, spesso perché la componente iperattiva si vede meno, è più interna, magari la bambina è seduta al banco e sembra tranquilla ma la sua testa è in tutt’altro posto. Nelle donne adulte magari invece dell’ADHD diagnosticano una depressione, un disturbo d’ansia e cure quindi sbagliate.

In generale quali sono i campanelli d’allarme? 

Come dicevamo il rischio di cadere nel rispecchiamento è alto. In generale possiamo dire un’attenzione sostenuta e iperfocalizzata quando si fa qualcosa che emoziona e stimola con discrepanza enorme con cose che sappiamo magari essere importanti ma che non interessano. Procrastinare e fare le cose all’ultimo, poi con l’attivazione della adrenalina si riesce a lavorare tantissimo per tantissime ore di seguito. Oppure cambiare di frequente lavoro o hobby.

E poi c’è una differenza proprio biologica, giusto?

Sì. A livello di area frontale c’è meno attivazione di dopamina e adrenalina, quindi si cerca all’esterno di attivare il sistema per compensare. I comportamenti che stimolano la dopamina sono quelli che danno un piacere immediato, spesso comportamenti non sani, magari mangiare un cibo molto dolce, molto salato, oppure le sostanze stupefacenti, purtroppo anche l'alcol e le sigarette. Per l’adrenalina invece si cercano comportamenti eccitanti, pericolosi, magari sport estremi.

A proposito. È uscito un nuovo studio nel Regno Unito, dice che le persone con l'ADHD hanno un'aspettativa di vita più breve. È così?

Purtroppo sì. L’ADHD rischia di ridurre le aspettative di vita, questo rischio però è dovuto a fattori comportamentali, per esempio mangiare cibo spazzatura, cercare situazioni pericolose, eccitanti, bere o fumare molto, assumere sostanze. Tutte scelte di vita che sono modificabili. 

Roberto Pagani, psichiatra
Roberto Pagani, psichiatra

Al momento, l'ADHD è trattato come qualcosa che o hai o non hai. È davvero così o ci sono delle sfumature?

Immaginiamo una linea, all’estremo ci sono le forme di ADHD più marcate, chi non riesce a leggere neanche tre righe se una cosa non gli interessa, ma poi se una cosa lo appassiona diventa il massimo esperto di quell’argomento. Nell’altro estremo troviamo una persona che ha un livello di concentrazione perfettamente stabile, è estremamente riflessiva, diciamo il contrario dell’ADHD. Ecco, poche persone stanno agli estremi, tutti noi ci collochiamo su questa linea. Il ruolo della diagnosi è identificare il tuo personale livello nella linea, in alcuni casi le manifestazioni sono intense, in altri no. D’altronde è uno spettro.

Nella vita quotidiana che problemi può avere una persona con l’ADHD?

Beh il livello di attenzione oscilla in base alla carica emotiva, quindi non è costante, potrebbe ricercare il piacere immediato e magari guardare meno ai risultati a medio-lungo termine. Può avere difficoltà di memoria, quella visiva invece è molto sviluppata, ma magari ci si dimentica un appuntamento, anche cose importanti o persone che poi pensano appunto di non essere importanti.

Quindi anche problemi relazionali…

Certo. Si può amare tantissimo qualcuno ma dimenticarsi di scrivere o chiamare.

E invece i punti di forza? 

Sono esattamente l’altra faccia dei punti di debolezza. Per esempio, sono eccezionali in quegli ambiti che interessano, in generale più bravi rispetto ai neurotipici. Proprio per la paura della noia sono persone che sanno come ravvivare le relazioni o rendere di nuovo stimolante quello che stanno facendo. Anche l’impulsività è un punto di forza, diversi miei colleghi con l’ADHD sono ottimi medici di urgenza, perché la loro mente, concedendosi meno tempo per riflettere, funziona molto velocemente e mette insieme più ragionamenti in pochissimo tempo.

Il mondo è pronto ad accogliere le neurodivergenze o stiamo cercando semplicemente di correggerle per incastrarle in uno schema neurotipico?

Diciamo che il mondo più pronto di prima, c’è più libertà, più curiosità, però funziona ancora in modo standardizzato, pensiamo alla scuola, si tende a voler uniformare un po’ tutti e questo è pericoloso perché puoi standardizzare chi è già simile, ma se provi a incastrare un ADHD in questo schema gli fai una grande violenza. 

E invece un'alternativa valida c’è?

Innanzitutto bisogna depatologizzare l’ADHD. Questo vuol dire lavorare sia sul negativo ma anche sul potenziale positivo. Non solo, per togliere lo stigma bisogna parlare sempre di più di ADHD, un modo anche per avvicinare chi crede di avere una neurodivergenza ma magari ha paura della diagnosi.

È per questo che ha deciso di raccontare l’ADHD su TikTok? 

Esatto, credo sia uno strumento potente, soprattutto per avvicinare chi ha l’ADHD, magari con una soglia di attenzione di durata limitata e ha difficoltà ad approfondire il tema su libri o manuali. I social sono più immediati, un mezzo per raggiungere tante persone e un gancio soprattutto per poi approfondire il tema.

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