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Storia di Spartaco, il padre di D&D in Italia: “Si pensa solo alle regole, il cuore del gioco è un altro”

Nel 1984 è uscita in Italia la prima edizione di Dungeons and Dragons (D&D), il gioco di ruolo che ha formato generazioni di amanti del genere fantasy. Nel 1987 è diventato editore responsabile di Dungeons and Dragons per Editrice Giochi. A Fanpage.it ha spiegato come è cambiato D&D in Italia negli ultimi 40 anni.
Intervista a Spartaco Albertarelli
Curatore della prima versione di Dungeons and Dragons in Italia
A cura di Velia Alvich
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Quando Dungeons and Dragons (D&D) è stato lanciato negli Stati Uniti, Gary Gygax e Dave Arneson forse non immaginavano che la loro creazione sarebbe diventata un successo planetario. Secondo Wizard of the Coast, l'azienda che oggi detiene i diritti del gioco di ruolo che ha definito un genere, oltre 50 milioni di persone hanno giocato a D&D in tutto il mondo.

In Italia ci sono voluti dieci anni prima di vedere la versione ufficiale del gioco tradotta e adattata nella nostra lingua. Non poco tempo, ma è pur sempre un compleanno a cifra tonda anche per la versione che è stata presentata come "la scatola rossa". Alcuni giocatori erano pronti alla novità: la versione americana delle regole era arrivata già fra le mani di chi consumava regolarmente giochi da tavolo e di società.

Fra questi c'era anche Spartaco Albertarelli, che da giovane ha fatto della sua passione per i giochi una professione: nel 1987 è diventato editore responsabile di Dungeons and Dragons, ma anche della linea Risiko e di altri giochi da tavolo pubblicati da Editrice Giochi. Oggi continua il suo percorso come game designer con la casa editrice KaleidosGames, ma non ha dimenticato gli eventi che hanno portato alla pubblicazione del famoso gioco di ruolo in Italia.

Chi ha portato Dungeons and Dragons qui in Italia?

È stato portato da Giovanni Ingellis, che era il titolare di una piccola casa di importazione di giochi dagli Stati Uniti, dove aveva dei parenti. Nella vita di tutti i giorni faceva l’insegnante, ma era anche un appassionato e smerciava a una serie di giovani appassionati fra cui sottoscritto.

Lei come entra in gioco?

Già all’epoca ero un appassionato di giochi, da quelli di simulazione a quelli militari. Insomma quello che arrivava. Se uno voleva giocare qualcosa di un po' diverso dal solito doveva rifornirsi per forza oltreconfine. Lui era quello che ce li procurava. Per una serie di vicende, compreso il fatto che conoscevo l’inglese e sapevo battere sulla macchina da scrivere, ho iniziato a dargli una mano quando è arrivato il momento di tradurre giochi. Diciamo che sono andato a lavorare per lui, nel senso che ero all’università e arrotondavo, o meglio, mi facevo pagare in giochi. Così alimentavo la mia passione.

Quando spunta Dungeons and Dragons nella vostra vita?

Fra i giochi che aveva visto negli Usa e che voleva portare qui c’era proprio D&D, così ha cominciato a fare la traduzione. Anziché distribuirlo lui stesso, ha trovato un aggancio con Editrice Giochi. All'epoca lui metteva le traduzioni in italiano delle regole nelle scatole originali, non faceva un vero e proprio lavoro editoriale. Ma per un gioco come D&D era più complicato, ci voleva una vera e propria edizione. Inizia così, nel 1984 quando è uscita la prima edizione della scatola rossa. Nell’arco di tre anni, per una serie di vicende totalmente casuali, sono andato a lavorare proprio a Editrice Giochi. E da lì sono diventato responsabile editoriale del gioco.

Com’è finita la sua avventura come responsabile editoriale di Dungeons and Dragons in Italia?

Intorno al 1997 la TSR, che produceva il gioco negli Stati Uniti, è entrata in crisi finanziaria. Ha cercato di rastrellare soldi a destra e manca, aumentando enormemente i contratti con le altre aziende. Editrice Giochi ha deciso di uscire dal mercato dei giochi di ruolo abbandonando Dungeons and Dragons, che poi è stato portato avanti da altre persone e in altre forme.

Com’è venuta l’idea a Ingellis di portare D&D ai giocatori italiani?

Negli Stati Uniti era già diventato un fenomeno. La cosa sbalorditiva in realtà è che sia stato preso da un'azienda che faceva Monopoli, Risiko, Cluedo. Un gioco totalmente fuori dalle corde di Editrice Giochi. Però proprio questo passaggio è quello che ha consentito a Dungeons and Dragons in Italia di diventare il successo che è ancora oggi.

Perché?

Perché Editrice Giochi vendeva nei supermercati. Le vendite che aveva fatto con Dungeons and Dragons non è in grado di farle nessuno oggi: 20.000 copie all’anno. Adesso devi metterne dieci insieme per fare le stesse cifre nel mercato dei giochi di ruolo in Italia.  E, in generale, nel mondo dei giochi da tavolo negli ultimi anni un gioco di successo vende 5.000 copie. Venderne mille è una cifra normale. Poi ovviamente ce ne sono alcuni che hanno dei picchi di vendite, ma la media è ormai quella.

Avete preso delle decisioni particolari quando si è trattato di tradurre Dungeons and Dragons dall’inglese?

Come per tutti i lavori di traduzione ci sono delle terminologie per cui devi decidere se lasciare in inglese o tradurre in italiano. Per alcune devi fare delle forzature perché ci sono dei giochi di parole che funzionano in una lingua e non in un’altra. È una cosa abbastanza normale. Prendi per esempio la nuova traduzione del Signore degli Anelli: troverai delle differenze enormi in un sacco di terminologie, con un dibattito se sia meglio quella più vicina all'originale o quella che suona meglio di italiano. Dungeons and Dragons in questo non fa eccezione. Anzi, essendo stracolmo di termini presi dal fantasy, ovviamente crea un problema da questo punto di vista.

Per esempio?

Il Beholder (un mostro con più occhi, che letteralmente significa "colui che osserva") lo lasci all’inglese, perché non puoi tradurlo. Ma dall’altro lato, quello che avremmo dovuto tradurre letteralmente come Fungo Urlatore lo abbiamo chiamato Boleto Stridente. Si domandavano perché lo avessimo chiamato così. Oggi rispondo che non ricordo, che semplicemente suona meglio.

Ti capita di giocarci ancora?

Pochissimo. Per un motivo molto semplice: se sei stato un appassionato di giochi di ruolo di quell’epoca, tutto il dibattito di oggi sulle regole dei giochi di ruolo ti sembra strano. Alla mia epoca si diceva che potevi giocare by the rule oppure by the role (seguendo le regole o secondo il ruolo che si interpreta). Oggi vedo sempre più importante il primo, ma noi abbiamo smesso di giocare secondo le regole quasi subito. Per noi era una forma teatrale. L'idea di prendere oggi un manuale e di mettermi ad applicare pedissequamente le regole mi sembra surreale. Se voglio dedicarmi a una partita a un gioco di ruolo, so come farla anche senza di queste.

Qual è il "tuo" personaggio, quello che sceglieresti sempre? 

Quello che farà ridere di più. Vale anche quando faccio io il dungeon master e distribuisco i personaggi. Prima di raccontarti chi è lui, cerco di capire chi sei tu. Magari giochiamo dopo cena, abbiamo fatto quattro chiacchiere e così ti ho studiato. E ti affido un personaggio che sia divertente se interpretato proprio da te, e non interpretato dalle regole. Questo è giocare by the role. C’è una situazione e tu interpreti un personaggio in funzione del fatto che sei all'interno di una recita, che deve essere divertente per tutti. Non sei un personaggio in cerca d’autore, sei un personaggio vero. Se nella vita reale sei quel personaggio, cercherò di farti interpretare qualcosa di diverso. In generale cerco di interpretare qualcosa che sia molto distante da come sono io e lo stesso vale per gli altri. Questo per me è il divertimento nel gioco.

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