Secondo Valditara i videogiochi violenti “stimolano l’agressività”: lo abbiamo chiesto a uno psicologo
“No ai videogiochi violenti che stimolano l'aggressività". A dire queste parole è il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara in occasione dell’evento “W la Salute”, avvenuto l'11 dicembre. Tema dell’incontro, pratiche e comportamenti sani per i più piccoli. Per tale ragione, i videogiochi sono da evitare, o meglio, demonizzare. Ormai è un meccanismo ricorrente. Succede a ondate. I videogiochi entrano nel dibattito pubblico e si discute sul fatto che possano innescare la violenza in chi ci gioca. Negli ultimi giorni è successo anche in un'altra ocassione.
Durante puntata del 5 dicembre scorso de La Volta Buona, il programma su RAI 1 condotto da Caterina Balivo, i videogiochi diventano il focus per spiegare il caso di cronaca che ha coinvolto due adolescenti di 15 e 16 anni, colpevoli di aver accoltellato un uomo di 62 anni a Lucca. Secondo il dibattito in studio, i giovani non sanno comunicare, a causa della violenza e dell’isolamento causati dal gaming. “Quand’ero piccolo si giocava in cortile” dice in trasmissione il giornalista Salvo Sottile, per indicare quanto fosse migliore la socialità del passato rispetto a quella odierna. Ne abbiamo parlato con Marco Lazzeri, psicologo specializzato in realtà virtuale e nuove tecnologie.
Cosa ne pensa delle dichiarazioni del ministro Valditara e degli ospiti di La Volta?
Non mi sorprendono. È frequente che temi complessi come quello dei videogiochi vengano affrontati con giudizi affrettati e generalizzazioni, soprattutto quando manca una solida base scientifica e una conoscenza approfondita.
Non è pericoloso questo atteggiamento allarmistico?
Certo. Rischia non solo di alimentare pregiudizi, ma anche di distogliere l’attenzione da una discussione più costruttiva e basata sui fatti. Molti dei timori espressi nei confronti dei videogiochi, come il rischio di dipendenza, isolamento sociale o comportamenti violenti, sono in realtà infondati o largamente esagerati.
Cosa dice la letteratura scientifica a riguardo?
La letteratura scientifica ci dice che, sebbene il Gaming Disorder sia un fenomeno reale, ad oggi rappresenta una minima parte della popolazione di giocatori, stimata dall'OMS tra lo 0,6% e il 3%. La maggior parte delle persone gioca in modo equilibrato e trae benefici dai videogiochi, che possono essere uno strumento per socializzare, rilassarsi e sviluppare abilità cognitive. Anche il dibattito sul legame tra videogiochi violenti e aggressività è stato ampiamente ridimensionato dalla ricerca. Nel 2020, la stessa American Psychological Association ha dichiarato che non ci sono prove sufficienti a supportare un nesso causale diretto tra i due fenomeni.
Quale potrebbe essere una soluzione?
Piuttosto che condannare i videogiochi in blocco, sarebbe più utile riconoscerne il potenziale positivo. In ambito educativo, sociale e persino terapeutico, i videogiochi rappresentano un’opportunità che merita di essere esplorata con approcci responsabili e basati su evidenze. Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di educare e sensibilizzare a un uso consapevole, superando pregiudizi che non trovano riscontro nella realtà dei fatti.
Come mai secondo lei ancora oggi si associano i videogiochi alla violenza?
L’associazione tra videogiochi e violenza è il risultato di una combinazione di fattori culturali, mediatici e sociali. Spesso, questa visione deriva da una scarsa conoscenza diretta del medium e da una diffidenza di base verso le nuove tecnologie, che in passato ha caratterizzato anche altri fenomeni culturali. A questo si aggiunge il ruolo amplificatore dei media, che tendono a focalizzarsi su notizie sensazionalistiche, come casi di cronaca legati a comportamenti violenti, attribuendo ai videogiochi un ruolo causale diretto anche in assenza di evidenze concrete.
Ci sono altri fattori che contribuiscono a questa visione?
Un altro elemento è rappresentato dalle preoccupazioni che riguardano il tempo trascorso a giocare e l'impatto percepito sulla socializzazione, sul rendimento scolastico o sullo sviluppo personale dei giovani. Questi timori si sono consolidati nel tempo attraverso narrazioni che dipingono i giocatori come socialmente isolati o inclini a comportamenti antisociali. Tutto ciò riaccende flussi di allarmismo e generalizzazioni che faticano a essere contrastati da una narrazione più equilibrata. Eppure, sappiamo dalla ricerca che i videogiochi, nella stragrande maggioranza dei casi, non sono la causa di comportamenti violenti. Al contrario, possono rappresentare uno spazio sicuro di espressione, socializzazione e apprendimento.
Ci sono studi recenti che testimoniano la non correlazione tra videogiochi e violenza?
Diversi studi scientifici hanno evidenziato l’assenza di una correlazione significativa tra l’uso di videogiochi violenti e l’aumento di comportamenti aggressivi. Dei tanti che si possono reperire in letteratura, ne esiste uno in particolare che mi piace citare sempre. Uno studio pubblicato su Nature Molecular Psychiatry (2018) ha analizzato gli effetti a lungo termine dei videogiochi violenti. I partecipanti, suddivisi in tre gruppi – uno che giocava a Grand Theft Auto V (videogioco violento), uno a The Sims 3 (videogioco non violento) e un gruppo di controllo che non giocava – sono stati monitorati per due mesi.
E quali sono state le conclusioni dello studio?
I risultati sono stati chiari: non sono emerse differenze significative nei livelli di aggressività tra i gruppi. Questi risultati invitano a spostare l’attenzione su fattori più determinanti, come il contesto familiare e sociale, per comprendere il comportamento umano. I videogiochi, invece, meritano di essere valorizzati per il loro potenziale positivo, soprattutto se utilizzati in modo consapevole ed equilibrato
Secondo lei questo allarmismo è un fenomeno che coinvolge solo la cultura italiana o anche estera?
La tendenza a generalizzare e stereotipizzare i videogiochi come causa di dipendenza e di violenza non è un fenomeno limitato alla cultura italiana, ma si manifesta anche a livello internazionale. Un esempio significativo è il caso del Canada, dove nel 2019 lo studio legale Calex Legal, in rappresentanza di tre genitori canadesi, ha richiesto alla Corte Suprema del Québec l’approvazione per intraprendere una class action contro Fortnite, accusato di creare dipendenza. La modalità di gioco incriminata è quella della Battle Royale, introdotta nel 2017, con l’accusa secondo cui gli sviluppatori avrebbero ideato il gioco con l’intento di indurre i ragazzi a sviluppare comportamenti di dipendenza senza informarli dei rischi associati all’utilizzo di Fortnite.
Recentemente anche Call of Duty è stato accusato per la strage in Texas, a Uvalde. Come finì la class action contro Fortnite?
A sostegno delle loro accuse, i genitori hanno citato comportamenti attribuibili ai figli, come la riduzione delle ore di sonno, l’aumento della trascuratezza personale, conflitti familiari e spese eccessive – fino a circa 600 dollari – nello store del gioco. In un articolo del Daily Mirror (2018), lo specialista comportamentale britannico Steven Pope ha paragonato Fortnite all'eroina, un paragone che, sebbene controverso, è servito a creare un allarmismo simile anche in Italia. l’8 dicembre dello stesso anno, il giudice Sylvain Lussier ha ritenuto ammissibile l'azione legale, dando così il via al procedimento e riaccendendo un dibattito critico sull’impatto dei videogiochi e sulla loro influenza sui più giovani.