Perché non ci sono mai mamme nei videogiochi?
Joel, Kratos, Ryan: il mondo dei videogiochi è pieno di papà. Lo stesso però non vale per le mamme. E non perché non siano presenti. Basti pensare a Mama di Death Stranding o Joyce Price di Life is Strange. Donne di grande impatto, che però restano elementi di contorno all’interno delle vicende narrate, a differenza dei nomi citati all’inizio. Figure che, per quanto potenti, non escono dalla rappresentazione classica della madre pronta al sacrificio per permettere l’autodeterminazione del figlio o della figlia. Un ruolo perfettamente riassunto – e semplificato – dalla mamma presente in ogni capitolo di Pokémon. In altre parole, di madri eroine ce n’è davvero poche. Tolto un personaggio pionieristico come Samus di Metroid, è davvero difficile trovare figure materne come protagoniste, diversamente dalle quelle paterne. Di questa disparità se ne parla da un po’, anche in Italia.
Le motivazioni sono ricollegabili al pubblico di riferimento e alla scarsa componente femminile all’interno degli studi di sviluppo, soprattutto in posizioni di rilievo. A riprova che quanto rappresentato nei media – videogiochi inclusi – riflette la cultura e la società che li produce. Nel caso del settore videoludico, nonostante la poca differenza tra pubblico maschile e femminile (1,7 miliardi contro 1,39 miliardi), la percezione è che i videogiochi siano ancora “cose da uomini”. Per tale ragione, le grandi produzioni puntano a protagonisti con cui il target di riferimento può facilmente immedesimarsi. Ciò spiega il passaggio dall’eroe irriverente e scanzonato dei primi anni 2000, in linea con i gusti degli adolescenti, al padre tormentato e maturo, pronto ad andare incontro ai millenial ora adulti.
Le mamme videogiocano?
Diversi studi pubblicati nel 2020 dimostrano l’aumento delle madri videogiocatrici. Secondo un report di Activision Blizzard, due terzi delle madri intervistate giocano ai videogiochi. Tuttavia solo il 48% di esse si ritiene una vera gamer. Il report fa riferimento a tutte le piattaforme di gioco e ai generi videoludici, inclusi MMO, action, mobile games e così via. Non si tratta di una tendenza recente. Ecco quanto è emerso in uno studio pubblicato nel 2013 dall’ESA (Entertainment Software Association) in riferimento alle mamme videogiocatrici negli Stati Uniti:
- Il 30% delle mamme giocatrici con bambini di età compresa tra 5 e 12 anni afferma che i videogiochi li aiutano a connettersi con i propri figli
- Il 56% delle mamme giocatrici afferma che il gioco è un'attività familiare in cui tutti possono essere coinvolti
Eppure, dieci anni dopo, la percezione comune è che il videogioco debba accontentare esclusivamente il pubblico maschile. Non è secondario che le recenti protagoniste femminili – la nuova Lara Croft, Aloy, Senua – siano giovani donne. Ci sono poi le eccezioni (Selene di Returnal ad esempio), che però in quanto tali, sono rare. Certo, le eroine qui citate rappresentano grossi passi in avanti in termini di rappresentazioni, ma al contempo dimostrano quanto la prospettiva maschile influenzi la creazione di personaggi al di fuori degli standard a cui siamo stati abituati sinora.
Le mamme sviluppano i videogiochi?
Poche donne rappresentate vuol dire che ci sono poche donne a raccontarle. Secondo l’ultimo rapporto IIDEA, l’associazione di categoria italiana, la componente femminile negli studi di sviluppo in Italia è pari al 24%, leggermente superiore alla media europea. Un numero che è destinato a crescere secondo la Vice presidente di IIDEA, Luisa Bixio. Nonostante l’ottimismo per il futuro, sono però numeri piccoli, che non ci dicono il numero effettivo delle madri, ma che testimoniano la predominanza della cultura maschile all’interno dei team di sviluppo. Di certo è più facile trovare un game designer come Cory Barlog, che per il rivoluzionario God of War del 2018 si è ispirato alla sua prima esperienza da padre, ma non il contrario.
Tutto questo spiega perché non c’è niente da festeggiare oggi. A perderci non sono solo le mamme della vita reale, ma tutti come appassionati, perché il danno è di trovarci di fronte a opere che, per quanto meritevoli, restano in una comfort-zone rappresentativa, la quale rischia di appiattire la realtà variegata ed eterogenea, e dunque anche la nostra immaginazione.