Perché il nostro Spotify Wrapped non è mai come ce lo aspettiamo
“È uscito Spotify Wrapped”, dice un collega seduto accanto a me. Ha il telefono e mi mostra la schermata colorata sul servizio di streaming. Siamo in pausa pranzo seduti attorno al tavolo, e da qualche minuto è stata resa pubblica la panoramica annuale calcolata da Spotify. Prendiamo gli smartphone e apriamo l’app. C'è chi lo tiene basso per non mostrarlo agli altri, chi con lo sguardo perplesso scorre le storie confezionate dal servizio di streaming. Qualcosa non torna.
Quasi tutti rimaniamo sorpresi dalle classifiche. Non sono quelle che ci aspettavamo. C’è un motivo se Spotify Wrapped è uno specchio distorto della tua dieta musicale. Ci sono elementi banali che possono influenzare i dati di ascolto come playlist dimenticate in sottofondo, account condivisi o amici che usano il nostro Spotify durante viaggi in macchina. Al di là delle contingenze c’è però un problema alla base ben più complesso.
Il peccato originale è la distribuzione algoritmica che ha distinto sin da subito Spotify dalle altre piattaforme di streaming musicale. I brani possono essere categorizzati male, inseriti in playlist in cui vengono stipati generi e artisti senza un comune denominatore. E poi ci sono i criteri, poco chiari, di raccomandazione algoritmica. Rischiamo quindi di adattare le nostre abitudini di ascolto in "profili di gusto", che vengono misurati e poi riproposti utilizzando un set di parametri.
Questa tendenza viene rafforzata dall’ascolto passivo o di background, indotto dalle playlist a riproduzione infinita. Sembra l'inevitabile deriva del capitalismo digitalizzato, dove consumatore è intrappolato nel suo stesso ciclo di feedback. Ma facciamo chiarezza e anche qualche esempio pratico.
Quattro motivi banali che stravolgono il tuo Wrapped
Partiamo con le cose semplici. Banalmente se hai lasciato che i tuoi amici scegliessero le canzoni durante un viaggio o a una serata non è poi così strano veder comparire sul tuo Spotify Wrapped generi e artisti che non rientrano nei tuoi ascolti. Non solo, anche se hai deciso di sacrificare il tuo Spotify come sottofondo musicale durante una festa (magari durata ore) è probabile che escano delle anomalie. Dentro playlist come "Greatest Hits Anni 2000” c’è di tutto. Spesso artisti e brani che non ascolti.
Non solo, c’è un secondo grado di influenza più incisivo. Facciamo un esempio, se Spotify registra quattro riproduzioni di Britney Spears, per rimanere fedeli al caso delle playlist "Greatest Hits Anni 2000” è probabile che la settimana successiva ti proponga qualcosa di simile nella tua Discover Weekly, andando a rinforzare quindi il processo di influenza. Spotify Wrapped, poi, non considera l’ultimo mese di ascolto. Non ha mai rilasciato una data di fine analisi, ma si stima che raccolga i dati per il suo Wrapped fino al 31 ottobre, tutto quello che hai ascoltato a novembre, quindi la musica che senti come più rappresentativa, viene automaticamente esclusa.
C’è infine un quarto elemento "banale": l’account gratuito. Se non paghi puoi ascoltare tutta la musica che vuoi, è vero, ma a delle condizioni. Per esempio, è previsto un massimo di sei skip all'ora (saltare la traccia), non è strano quindi inciampare in più di un artista (presente in una playlist scelta) che non vorremmo ascoltare ma che non possiamo saltare. E anche in questo caso si rischia di cadere nel loop della raccomandazione algoritmica. Faccio un esempio, nella playlist Garage anni ‘90, ci sono i Kiss (strano ma vero), a me non piacciono, ma se non li salto perché ho finito gli skip a disposizione l’algoritmo non solo li registrerà come dati di ascolto ma me li riproporrà attraverso i suoi meccanismi di raccomandazione. Un account a pagamento quindi assicura una fotografia più fedele rispetto alla versione gratuita, dove spesso la casualità domina le scelte di ascolto.
Come rimaniamo incastrati nella ruota del criceto
Di base, però, c’è proprio un problema strutturale legato a quelle che possiamo definire playlist algoritmiche. Spotify tiene traccia della tua musica, la categorizza, misura le abitudini di ascolto rispetto ad altri utenti e usa queste informazioni per suggerire canzoni che potrebbero piacerti. In altre parole confronta modelli di ascolto per fornire raccomandazioni. Quindi in base ai nostri dati determina quali brani rientrano in categorie simili alle nostre preferenze. In questo modo genera profili di gusto per raccomandazioni personalizzate.
Questi profili di gusto si basano sia su feedback espliciti (brani salvati o saltati), sia impliciti (durata dell’ascolto e ripetizioni) e vengono utilizzati per creare per esempio la tua "Discover Weekly". Rimaniamo così incastrati nella ruota del criceto. La playlist che per curiosità o pigrizia facciamo partire ogni settimana, va poi a costituire una base per il nostro Spotify Wrapped, se una canzone si ripete abbastanza, compare poi nella tua top 101 list e Spotify.
Mercato fluido e ascolto disattento: così nasce il nostro Wrapped
Andiamo ancora più a fondo, perché la riproduzione algoritmica ha una falla nelle sue premesse: il genere. Ancora prima di Spotify il mercato musicale ha sfruttato il concetto di genere per costruire un'industria, intercettare fanbase, e mettere in piedi etichette discografiche ben identificabili. Il genere però è una categoria convenzionale che identifica e classifica artisti e brani in base a criteri di affinità. Tolti alcuni casi, per fare un esempio nazional popolare, i Nirvana e il grunge, è molto difficile far rientrare un progetto nella scatoletta del genere. Lana Del Rey è definita come "pop, indie R&B, indietronica, chamber pop, synthpop", è un po' tutto questo, ma allo stesso tempo non è davvero nessuno di questi generi. Non solo, il mercato musicale del nuovo millennio sta sfornando soprattutto artisti post-genere, quindi ibridi musicali che scivolano su influenze diverse.
Paradossalmente in questa retorica del post genere c'entra anche Spotify e tutto il mercato della musica digitale. I Millennial o ‘nativi digitali' sono la prima generazione ad avere l'intera musica mondiale a portata di mano e questo ha influenzato sia gli artisti, sia gli ascoltatori. È chiaro che esistono ancora generi definiti, un ritmo reggaeton è difficile trasformarlo in qualcos’altro, eppure la tendenza, data anche dagli innumerevoli featuring, è fluidificare. Gli algoritmi però nel fluido non si muovono bene. Anzi. Hanno bisogno di categorie ben definite per applicare le formule che restituiscono le nostre statistiche annuali.
Il risultato è che per far coesistere gli algoritmi all’interno di un mercato fluido si forza la mano. Quindi si infilano in una playlist o nelle raccomandazioni pop rock, progetti che magari non sono pop rock, anche, ma non solo. Infine vale la pena considerare anche le innumerevoli playlist create dagli utenti, da quelle basate sul mood (felice, triste, malinconico) a quelle costruite proprio sul genere, che spesso sono un bibitone caotico di artisti e brani che ci caliamo senza prestare troppa attenzione.
Perché alla fine di questa lunga ricostruzione dobbiamo anche puntarci il dito contro. Le statistiche sballate sono anche frutto del nostro ascolto disattento, al punto che ci stupiamo se Billy Eilish è comparsa tra gli artisti più ascoltati dell’anno. Spotify è diventato un tapis roulant sonoro che scorre e non ci porta da nessuna parte. È un sottofondo guidato dagli algoritmi. E viene da chiedersi: "Ma ascoltiamo davvero quello che ci passa nelle orecchie tutti i giorni?".