“Il modo migliore per cominciare a realizzare i nostri sogni è quello di svegliarci”. È una frase presa in prestito dallo scrittore francese Paul Valéry quella con cui Giovanni Azzone mi risponde, quando gli chiedo di chiudere gli occhi e di immaginare il futuro. Ingegnere di formazione, presidente della Fondazione Cariplo, la più grande fondazione di origine bancaria italiana, già rettore del Politecnico di Milano dal 2010 al 2016, il percorso professionale di Azzone è al centro dell’incrocio tra progresso tecnologico e progresso sociale. Immaginare il futuro con lui non significa solo parlare dei progressi della tecnica, insomma, ma anche di come questi finiranno per impattare sulla società: “La tecnologia non è neutra – argomenterà nel corso dell’intervista -, ma l'effetto della tecnologia sulla nostra vita dipende moltissimo da quel che noi decidiamo di fare con quella tecnologia”.
Perché ha scelto quella frase di Valéry, per iniziare la nostra conversazione?
Perché più che immaginarlo, il futuro bisogna desiderarlo.
E lei cosa desidera, quando pensa al futuro?
Desidero un mondo in cui la tecnologia possa essere qualcosa che migliora la qualità della vita in modo diffuso e aperto per tutti. Faccio un esempio specifico, quello dello smartphone: vent'anni fa il telefono cellulare era qualcosa che entrava nei film di James Bond e poco altro. Oggi è uno strumento che in metropolitana tutti consultano, indipendentemente dalla loro classe sociale e che ci aiuta ad avere informazioni e a prendere decisioni.
È una visione molto ottimista la sua. In realtà, oggi, molte persone hanno paura, quando pensano al futuro e alle nuove tecnologie. Se il futuro fosse un videogioco, quali sono i tre mostri che le farebbero più paura?
Credo che i mostri più importanti siano quelli che sono dentro di noi. Io nel videogioco posso perdere perché non conosco bene le regole e quindi non mi ci adatto. Posso perdere perché non trovo gli alleati, per cui di fatto combatto da solo e sono soverchiato da nemici che hanno complessivamente più forza rispetto a me. O posso perdere perché di fatto non riesco a cogliere gli aiuti che in qualunque videogioco ci sono. Per me questi sono i tre mostri: non conoscere le regole, quindi l’ignoranza. L’incapacità di ascoltare gli altri, essere chiusi in se stessi. Il terzo è l’intolleranza, pensare di essere da soli e rifiutare tutto ciò che è diverso rispetto a noi. Ignoranza, intolleranza e mancanza di capacità di ascolto: secondo me i tre mostri più importanti che ci portano ad avere paura del futuro sono questi.
E come si combattono questi tre mostri?
Con la loro antitesi: l’ignoranza si batte con la conoscenza, che serve a interpretare il futuro. L’intolleranza si batte con la tolleranza, rendendosi conto che la diversità è un valore, ed è quel che ci consente di cogliere degli stimoli, di avere nuove idee. E infine la chiusura mentale si batte con la capacità di ascolto, anche di chi ha una visione diversa.
È un po’ paradossale vivere in un mondo iperconnesso, ma incapace di ascoltare, no?
È così, è una dimostrazione del fatto che quando la tecnologia viene vista come qualcosa di alternativo rispetto alle relazioni umane, non solo non arricchisce, ma rischia di farci perdere in socialità. Cito un progetto di Fondazione Cariplo: abbiamo fatto partire un bando che si chiama “Porte aperte” proprio perché ci siamo resi conto che gli adolescenti non avevano più luoghi di integrazione di aggregazione: questo vuol dire che anche lo smartphone può essere uno strumento utile, ma può esserlo solo se unito ad altri stimoli.
Facciamo un gioco: nel Monopoli ci sono le carte degli imprevisti e delle probabilità, di fatto sinonimi rispettivamente di rischio e opportunità. Lei è stato rettore di uno dei più importanti politecnici d'Europa, quello di Milano: io ora le nominerò dieci tecnologie che già sono presenti nel mondo che i più importanti studiosi identificano come centrali per il nostro futuro. Partiamo dall’Intelligenza artificiale: rischio o opportunità?
Opportunità. E se togliessimo il termine intelligenza e la chiamassimo supporto artificiale o disponibilità di dati e di lettura di dati, ci renderemmo conto di quello che effettivamente ci può dare.
Perché non dovremmo parlare di intelligenza?
Perché non ci aiuta a utilizzare in modo intelligente le informazioni, ma ci aiuta a lavorare sulla mole importantissima di informazioni che ormai ci circonda. Non abbiamo neanche più un'unità di misura per queste informazioni, per riuscire a razionalizzare.
Non teme la singolarità? L'idea che questa intelligenza in qualche modo superi l'intelligenza umana o abbia pensiero autonomo?
No. L'essere umano non è intelligente perché usa tante mole di dati e fa tantissime operazioni in sequenza. È intelligente perché riesce a trovare delle modalità di connessioni diverse rispetto al passato.
L'auto elettrica: rischio o opportunità?
L'auto elettrica la vedo sostanzialmente come un possibile imprevisto e non la vedo come una delle innovazioni che cambieranno il mondo. La vera rivoluzione sarà l'auto senza conducente: la guida autonoma può veramente cambiare i modelli di funzionamento della città. Immaginiamo il solo fatto che non avremo più le auto parcheggiate nel centro di Milano, ma in qualche grandissimo parcheggio isolato in periferia, dal quale l’auto arriverà da me con un richiamo. Cambierà proprio il modo di vivere la città.
Ok, ma senza l'auto elettrica come le riduciamo le emissioni di CO2?
Dobbiamo ragionare su un cambio di modalità di funzionamento della società.
Cioè?
Non voglio essere un utopista, o evocare un ritorno al passato però pensiamo allo smart working, alla diffusione estesa dello smart working. La chiave è muoversi di meno, anziché muoversi come oggi, ma con l’auto elettrica.
Andiamo avanti: le farine di insetti?
Opportunità. Gli insetti sono un'innovazione fondamentale per ridurre il problema della fame nel mondo e contribuire alla lotta al cambiamento climatico. I nostri limiti rispetto a questa possibilità sono soprattutto culturali. Ci sono altri Paesi dove gli insetti sono una normale fonte di alimentazione. Non credo sia un'innovazione che ci creerà grandissimi problemi: richiede solamente il superamento di una barriera culturale.
Questa è difficile: i chip sottopelle?
Tra tutte, questa è l’innovazione che mi fa più paura. Certo, può garantire una serie di elementi positivi, ma rischia di ingenerare un forte controllo esterno sulle persone. Noi in fondo siamo dei sistemi fisici che vivono anche e soprattutto di impulsi elettrici: se ci fosse qualcun altro a governarli il rischio che si vada verso una società distopica tipo quella descritta in romanzi come 1984 di George Orwell o Il Mondo nuovo di Aldous Huxley è molto alta. Quindi rischio, rischio, rischio.
Che dice invece dei robot che lavorano al posto nostro?
Questa invece è una grande opportunità, nel senso che quanto più riusciamo a utilizzare il tempo delle persone per affrontare cose complesse, nuove e ci liberiamo dalla mera attività fisica, tanto meglio è. Certo, di pari passo bisogna migliorare la qualità della formazione delle persone per evitare che ci siano persone che non possono più lavorare.
Che ne pensa invece di realtà virtuale e realtà aumentata?
Non credo saranno tecnologie in grado di cambiare il mondo, molto onestamente. Direi un’opportunità, ma piccola.
L'internet delle cose e gli oggetti iperconnessi, invece? Cambieranno il mondo?
Questa è una grande opportunità perché libera il tempo e la testa delle persone.
La prossima non è una tecnologia, ma una tendenza sociale, quella dell'urbanizzazione di massa. E quindi di un mondo di megalopoli…
Questo è un rischio, ma credo anche sia una tendenza inevitabile, che cambia il fabbisogno di servizi e ci chiede rapidamente di trovare delle soluzioni compatibili a questo tipo di realtà, per evitare che tutto questo vada a discapito della qualità della vita delle persone.
Siamo quasi alla fine: la medicina predittiva?
La medicina predittiva credo sia una grande opportunità. Accorgersi in tempo che stiamo subendo una certa patologia cambia in modo radicale le possibilità di successo. Come tutte le predizioni non sono predizioni certe e quindi quest'area di rischio è un'area che deve essere governata. Qua credo sia fondamentale proprio il tema dell'ignoranza. Faccio un esempio sempre legato alla salute: quando abbiamo avuto i vaccini per il Covid erano vaccini a memoria di RNA, ma se dovessi spiegare che cos'è la memoria di RNA non ne avrei la minima idea. Non conoscere il framework di riferimento, il paradigma di riferimento, ci porta o a un'accettazione fideistica o a un rifiuto altrettanto fideistico dell'innovazione.
Ultima tecnologia: l’energia nucleare?
Io credo che l'energia nucleare pulita sarà una grande opportunità poiché incide in modo significativo sui livelli di inquinamento.
Lei crede nella fusione nucleare?
Sì, credo che l'evoluzione della tecnologia sarà tale e prima o poi arriveremo anche lì.
Fine del gioco, parliamo di un rischio certo. Leggevo un dato, pochi mesi fa, secondo cui un bambino italiano su due in età scolare non è mai entrato in un museo. Uno dei grandi problemi del nostro tempo è la povertà educativa. Basta la scuola? Come si può combattere la povertà educativa?
Se bastasse la scuola non ci sarebbe povertà educativa, perché a scuola ci vanno tutti. Di fatto credo che la scuola rischi di essere sempre più inadeguata.
Perché?
Per due motivi, soprattutto. Primo: le modalità di apprendimento dei ragazzi stanno cambiando in modo radicale rispetto al passato. Leggono meno libri, magari si documentano su Fanpage o su una serie di canali video, in un modo molto diverso rispetto al passato. E quindi, mentre il libro era qualcosa che veniva governato dalla scuola, influenzato dalla scuola, tutto il resto delle modalità di apprendimento è qualcosa che transita parallelamente alla scuola. Per di più il cambio generazionale sta diventando velocissimo. I ragazzi di cinque anni più giovani sono già una generazione successiva e quindi avere una classe di docente di baby boomer rischia di rendere le loro modalità di insegnamento ancora più obsolete.
ll secondo motivo?
Il secondo elemento è che la scuola sta diventando meno luogo di integrazione rispetto al passato. Abbiamo classi con presenza di ragazzi stranieri molto alte, classi invece di ragazzi italiani che sono completamente separati, magari vanno nella scuola privata da qualche altra parte. Questa ghettizzazione rafforza la povertà educativa perché la scuola dovrebbe essere un luogo che aiuta la condivisione di esperienze. E se noi cominciamo ad avere persone che non sono integrate, non hanno formazione, non hanno capacità di lettura della realtà fin da giovani, diventa poi molto difficile integrarle.
Un altro problema sociale che sta emergendo, soprattutto tra i giovani, è quello della salute mentale: stiamo sempre meglio fisicamente e sempre peggio nella testa…
Difficile dare risposte a queste grandi domande. Diciamo che abbiamo due livelli. Il primo riguarda le malattie vere e proprie ovvero le malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer, figlia dell'allungamento della salute fisica. E questo è un problema anche sociale perché chiama in causa tutta la rete familiare e la possibilità che i caregiver possano svolgere un’attività lavorativa. È un tema che sarà sempre più centrale, man mano che la nostra società invecchia. La mia speranza è che pian piano anche queste malattie riescano a trovare un intervento da parte della scienza. In fondo sul cancro abbiamo fatto dei grandissimi passi avanti. Più difficile ancora è fare i conti con ansia e depressione perché qui non è tanto la patologia su cui trovare cura e terapia, ma serve sviluppare le reti sociali per aiutare le persone a trovare un senso alla loro esistenza.
Altra macro tendenza del futuro che molti preconizzano è quella della fine del lavoro. Fine del lavoro vuol dire che le macchine faranno tutto per noi: noi saremo sussidiati con un reddito universale e potremo occuparci degli altri. Lei cosa ne pensa, di un futuro di questo tipo?
È una visione che ritengo tutto sommato poco realistica. Io conosco tantissime persone terrorizzate dalla pensione. Se lavorassimo solo perché siamo obbligati a farlo, non sarebbe così. Il lavoro ha una dimensione sociale, relazionale, di gratificazione personale, di senso di utilità della propria vita, della propria persona che non possiamo dimenticare. Poi credo che il numero di ore lavorative potrà diminuire: un ritorno a una vita con più tempo libero di sicuro male non ci farà.
Dovesse mettere in valigia tre valori, partendo per il futuro, quali porterebbe con sé?
La flessibilità, perché il mondo del futuro è un mondo su cui possiamo fare delle ipotesi, ma con accelerazioni velocissime. La pandemia ci ha portato in un mondo completamente diverso, in un insieme di relazioni sociali che non avremmo mai immaginato. Quindi la flessibilità diventa un valore fondamentale. Il secondo valore è l'amore per la diversità, o quanto meno l'accettazione della diversità, fondamentale in un mondo che sarà sicuramente più complicato di quello che abbiamo vissuto. Il terzo è l’ottimismo.
Perché è importante essere ottimisti guardando al futuro?
Perché ce lo insegna la Storia. L'umanità ha vissuto tantissimi momenti in cui sembrava che non ci fosse un futuro, ma è sempre riuscita a ricostruire un futuro migliore rispetto al passato. Credo che la qualità della vita media nel nostro periodo sia incomparabilmente migliore rispetto a quello che c'era 200, 300, 400 anni fa. Quindi se noi guardiamo un futuro con ottimismo sono certo troveremo la chiave per rendere questo mondo un po’ migliore rispetto a quello che c'è oggi.