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La Lega dice che l’Unione Europea ha “messo un bavaglio a internet”, cosa c’è di vero

Negli ultimi giorni alcuni europarlamentari della Lega si sono mossi contro il Digital Service Act (DSA), un regolamento dell’Unione Europea che definisce una serie di linee guida per le grandi piattaforme online.
A cura di Valerio Berra
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“Sapete cos’è questo bavaglio? È quello che la Commissione Europea vuole mettere ai cittadini europei”. Dietro queste parole c’è Susanna Ceccardi, europarlamentare della Lega. Nel video ha effettivamente un bavaglio addosso, tirato fino sopra il naso. Lo toglie e comincia uno spiegone sul Digital Service Act (DSA), un regolamento Ue che diventerà effettivo nel febbraio 2024. I giudizi non sono esattamente teneri.

“È una legge che rafforza la censura online e mette il bavaglio agli utenti che non si allineano al politicamente corretto. Con il Digital Service Act qualcuno sarà autorizzato a cancellare il pensiero dei cittadini, ad anestetizzare il pensiero critico, la satira e le opinioni sgradite ai guardiani del pensiero unico globale”.

La linea di Ceccardi è la stessa seguita da tutta la Lega. Il 25 agosto gli eurodeputati Marco Campomenosi e Alessandra Basso avevano diffuso una nota in cui si parlava di cinesizzazione: “L’entrata in vigore del Digital Service Act, provvedimento che rafforzerà la censura su Internet, è un deciso passo in avanti verso la ‘cinesizzazione’ del concetto di libertà di espressione in Europa, ci allarma e ci preoccupa”.

Cos’è il Digital Service Act (DSA)

Nel gergo giuridico il Digital Service Act (DSA) è un Regolamento Ue, un protocollo che si ripropone uguale per tutti gli Stati membri. Si applica ai servizi offerti dalla piattaforme web e nello specifico è stato costruito per rivolgersi a due tipi di società: le VLOP (very large online platforms) e le VLOSE (very large online search engines). Dietro a questi acronimi ci sono tutti i motori di ricerca e le piattaforme che hanno un bacino oltre i 45 milioni di utenti.

A chi è rivolto il DSA

Il (DSA) si applica a tutte le Big Tech che possono venirvi in mente. Nel dubbio, la Commissione Europea ha compilato un elenco preciso. Ci sono tutti i social network più famosi: Instagram, LinkedIn, Twitter (ora X), TikTok e Facebook. Ci sono i motori di ricerca come Google e Bing e ci sono anche molte piattaforme di e-commerce, come Amazon, Zalando e Alibaba.

Cosa prevede il DSA

A tutti questi colossi della tecnologia viene chiesto di adeguarsi a una serie di norme che riguardano tre ambiti: moderazione dei contenuti, trasparenza degli algoritmi e procedure di rischio per tempi di crisi. Nel DSA si chiede alle piattaforme di definire un team di moderazione che sia in grado di rispondere subito alle segnalazioni dei contenuti fatte dagli utenti o dalle istituzioni. L’obiettivo è quello di rimuovere subito i contenuti che violano le norme della community.

Interessante il punto sulla trasparenza degli algoritmi. Le piattaforme dovranno fornire agli utenti gli strumenti per sapere come mai un contenuto viene proposto loro dall’algoritmo. Informazioni importanti in social come TikTok dove molti dei contenuti che vengono visualizzati dagli utenti non sono scelti direttamente da loro ma sono proposti da un algoritmo che studia le preferenze degli utenti in base alle loro interazioni.

Sempre per gli algoritmi, il DSA prevede una stretta sui dati dei minori: le loro informazioni non potranno essere usate per creare delle pubblicità personalizzate. Secondo il General Data Protection Regulation (l’ormai celebre GDPR) l’età minima per iscriversi a un social network può variare tra i 13 e i 16 anni. Il DSA si muove nell’ottica di offrire comunque una tutela ai minori sui social fino almeno al compimento dei 18 anni.

Il punto 91 e i “tempi di crisi”

La parte del DSA che probabilmente ha prestato il fianco alle accuse della Lega è il Punto 91, dove si parla di come affrontare i “tempi di crisi”. Il punto si riferisce a casi in cui “circostanze eccezionali possano comportare una minaccia grave per la sicurezza pubblica o la salute pubblica nell'Unione o in parti significative della stessa”. Non è difficile immaginare i riferimenti: pandemia di Coronavirus e guerra in Ucraina.

In questi casi il diffondersi di false informazioni sulle piattaforme digitali potrebbe portare a conseguenze gravi. Lo abbiamo visto con le vaccinazioni durante l’era Covid, la diffusione di teorie contro i vaccini o contro i sistemi di controllo sanitario ha portato a proteste violente, nuovi contagi e a volte anche alla morte di chi ha scelto di non vaccinarsi. In questi casi, si legge, che la Commissione Ue vuole avere un canale diretto con le piattaforme per decidere di muoversi su diversi fronti. Si legge:

“Le misure che tali prestatori (le piattaforme online) possono individuare e considerare di applicare possono includere, ad esempio, l'adeguamento dei processi di moderazione dei contenuti e l'aumento delle risorse destinate alla moderazione dei contenuti, l'adeguamento delle condizioni generali, i sistemi algoritmici e i sistemi pubblicitari pertinenti, l'ulteriore intensificazione della cooperazione con i segnalatori attendibili, l'adozione di misure di sensibilizzazione, la promozione di informazioni affidabili e l'adeguamento della progettazione delle loro interfacce online”.

È davvero una legge bavaglio?

La moderazione non è censura. La scelta della Commissione Europea di definire dei criteri più stringenti per obbligare le piattaforme a controllare di più i contenuti pubblicati dai loro utenti è utile per evitare tutte quelle campagne di odio o di disinformazione che abbiamo visto da quando esistono i social. La libertà di espressione non è la libertà di odiare o di raccontare bugie. Un controllo più netto delle piattaforme quindi può solo rendere i social un posto più sicuro dove muoversi, soprattutto visti i precedenti.

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