La Cina sta facendo politica estera anche con i videogiochi: tutto parte dal Re Scimmia
Niente dice soft power cinese come milioni di gamer internazionali che attendono con impazienza l’arrivo del Capodanno lunare per ottenere premi e ricompense a tema all’interno del loro videogioco preferito. È la magia di League of Legends (LoL), il multiplayer strategico della Riot Games che dal 2015 è di proprietà del colosso tecnologico di Shenzhen, Tencent Holdings. Ma anche di Genshin Impact, action RPG (gioco di ruolo) di stampo fantasy della software house cinese miHoYo, che a tre anni dal suo debutto ha fatturato oltre cinque miliardi di dollari tra Giappone e Stati Uniti.
Giocatissimi su scala mondiale, attraverso personaggi come il Monkey King di LoL (riferimento al re scimmia protagonista del classico della letteratura cinese Viaggio in Occidente) o il “rito lunare” di Genshin, giochi di questo genere hanno contribuito a normalizzare elementi della tradizione cinese mostrandoli a un pubblico internazionale, guadagnandosi così il favore del rigido governo di Pechino.
Il soft power nei videogiochi
Se a livello domestico la Cina continua a stringere sull’utilizzo dei videogiochi, con norme che riducono l’accesso dei minori agli schermi a poche ore a settimana e limitazioni alla spesa online per i giocatori, il Partito comunista cinese guarda invece con approvazione ai traguardi esteri delle case di produzione locali, per via del loro ruolo di inaspettati “ambasciatori” della tradizione del Paese.
Lo stesso vicepresidente di Tencent Interactive Entertainment, Vigo Zhang, in un’intervista per il quotidiano statale cinese China Daily, ha dichiarato che i videogiochi prodotti da big tech della Repubblica popolare negli ultimi 10 anni “hanno fortemente contribuito a diffondere la cultura tradizionale della nazione cinese” nel mondo. Il tutto anche grazie a una grande partecipazione dei più giovani che, sempre nelle parole di Zhang, vedono nei videogiochi un “prodotto estremamente inclusivo, diventato parte delle norme sociali della Gen Z”.
I giocatori, insomma, tendono a non farsi troppe domande sulla provenienza di un gioco, fintanto che le caratteristiche strutturali e narrative rimangono conformi al “gusto occidentale”. Non a caso negli ultimi anni Tencent ha acquisito quote in quasi tutte le grandi case di sviluppo di videogiochi, da Visual Arts (Horizon Zero Dawn) a Techland (Dying Light), fino a Ubisoft (Assasin’s Creed), per integrare le capacità dei produttori internazionali ed espandersi oltre il mercato interno.
Le tracce della Cina nella produzione di videogiochi
Controllare la produzione di un gioco significa però poterne influenzare anche i dettagli apparentemente più innocui. Alcuni utenti di Genshin hanno per esempio denunciato la censura di parole considerate politicamente sensibili dal governo di Pechino come “Hong Kong” e “Taiwan” nella chat interna al gioco. Il nuovo titolo di punta della Riot Games invece, Valorant, testato prima a livello internazionale e successivamente lanciato in Cina dove ha debuttato a luglio 2023, è stato pensato alla base con caratteristiche già “edulcorate”, conformi cioè alle linee guida sui contenuti approvati in patria: niente violenza, niente politica, niente dinamiche che creano dipendenza.
Sparatutto dai colori sgargianti, Valorant sostituisce animazioni a fumetto alle classiche grafiche splatter delle uccisioni. I personaggi in gioco si chiamano “agenti”, evitando così la terminologia consueta che vede opposti “terroristi” e “anti-terroristi”. E le “bombe” da disinnescare sono rimpiazzate da un più neutrale spike, “spuntone”. L’obiettivo per le Big Tech cinesi è duplice: attingere al mercato internazionale e ai suoi 190 miliardi di dollari previsti per il 2024 e al contempo farsi scudo dalle ingerenze statali sul piano dei contenuti.
La politica di espansione passa dagli e-sports
Un altro segmento dell’industria videoludica con cui le società di gaming cinesi stanno calcando questo doppio binario è quello degli e-sports. Dove il governo cinese si è a più riprese scagliato contro i videogiochi e il loro “creare dipendenza”, con i media statali che sono arrivati a definirli “l’oppio del popolo”, non disdegna invece gli e-sports come contraltare agonistico al consumo di videogames. Questo perché li considera un modo per rilanciare l’immagine della Cina come potenza tecnologica e innovativa.
“Sia il governo centrale che quello locale stanno incoraggiando le aziende a investire negli e-sport come forma di intrattenimento” conferma a Fanpage.it Zeng Xiaofeng della società di analisi di mercato specializzata nel gaming, Niko Partners. “In Cina esistono 400 milioni di spettatori di competizioni di questo tipo e nel 2023 il pubblico è cresciuto del 3,4% nonostante le restrizioni al settore”, continua. La strategia cinese è dunque quella di continuare a favorire l’approccio competitivo dei videogiochi, a scapito di quello ludico. Meno giocatori giovani. Più giocatori professionisti.
“Idealmente un pro-player (giocatore professionista, ndr) dovrebbe cominciare ad allenarsi prima dei 18 anni”, spiega ancora Zeng, sottolineando che “le misure a protezione della gioventù in Cina complicano le cose”. Su questo fronte però Pechino può dormire sonni tranquilli: secondo le ultime stime sono oltre 1600 i giocatori professionisti cinesi che competono a livello mondiale, mentre a portare la cultura cinese in giro per il mondo ci pensa ancora una volta il Re Scimmia nel gioco più atteso dell’anno, Black Myth: Wukong.