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Il problema di Telegram non è la libertà di espressione: quali sono i rapporti tra app e polizia

Il 24 agosto Pavel Durov è stato arrestato dalla polizia francese in un aeroporto vicino Parigi, l’uomo era appena atterrato con il suo jet privato. L’accusa è quella di aver permesso una lunga serie di reati attraverso Telegram, app fondata nel 2013 insieme al fratello. Secondo gli investigatori Durov avrebbe reso possibile questi reati scegliendo di togliere la moderazione all’app.
A cura di Valerio Berra
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Telegram non risponde. Telegram non parla. Telegram non ha un referente che sia in grado di fornire un commento, che sia alla stampa che sia per un’indagine della polizia. Anche in questi giorni il commento ufficiale dell'app è stato quasi di forma. L’arresto di Pavel Durov da parte della polizia di Parigi è solo il primo passo di un processo che potrebbe cambiare il rapporto tra l’app e le istituzioni, almeno quelle Occidentali. Non è una battaglia ideologica, come dicono Elon Musk e Matteo Salvini. O almeno, non è solo quella.

La ricostruzione della vicenda ormai è nota. Telegram è un’app di messaggistica fondata nel 2013 da Pavel Durov e dal fratello Nikolaj. Durov, origini russe, voleva creare un’app crittografata, che permetesse agli utenti di comunicare in modo anonimo. Telegram è diventata qualcosa di più: con i canali e i gruppi sono nati luoghi virtuali dove gli utenti hanno iniziato a condividere ogni tipo di materiale. Tutto praticamente senza moderazione.

Telegram è diventato uno specchio di come sarebbe internet senza filtri. Grandi spazi di libertà per gli utenti che vivono in Paesi dove la censura filtra costantemente le informazioni e zone protette per far circolare truffe, materiale pornografico senza consenso e contenuti violenti. Una libertà che però nel corso degli anni ha dato più di un problema.

Le indagini sui gruppi e canali Telegram

“Non è possibile rivolgere richieste alla citata società in assenza di rogatoria internazionale. Si ritiene doveroso evidenziare che detta società, da esperienza passata, non collabora con le Autorità”. Queste righe si possono leggere in un’indagine della Polizia di Stato italiana condotta tra il 2021 e il 2022.  Si tratta di un’indagine per un reato minore, poca roba rispetto a quelli citati in questi giorni nell’arresto di Pavel Durov. L’uomo è accusato di aver favorito con le sue policy una lunga serie di crimini commessi dagli utenti su gruppi e canali che vanno dal terrorismo alla pedofilia. Eppure questa risposta rende chiare le difficoltà delle autorità a capire cosa succede dentro le chat di Telegram.

Non solo. Anche una volta individuati i gruppi in cui si organizzano o avvengono reati, è difficile per gli investigatori risalare agli amministratori. E questo schema si è ripetuto sempre più volte, tanto che c’è ormai una lunga letteratura di inchieste della Polizia Postale italiana dove gli agenti sono costretti aentrare sotto copertura nei gruppi Telegram per cercare di avere informazioni.

Le critiche di Matteo Salvini sulla libertà di espressione

Certo. Se Telegram non fosse così, non sarebbe Telegram. E se Telegram collaborasse con la polizia italiana, perché non potrebbe farlo con quella russa, magari dando tutte le informazioni su chi amministra i gruppi di oppositori contro il governo? O con quella cinese, spiegando chi fa entrare nel Paese le informazioni bloccati dai sistemi di sorveglianza di Pechino? La questione è complessa e soprattutto non si può dividere scegliendo di vederne solo una parte. Per questo le critiche sulla censura della libertà di espressione, come quelle mosse da Matteo Salvini, vedono solo un pezzo del puzzle. Il vero dibattito è sul prezzo dell’anonimato.

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