
Negli ultimi anni Black Mirror è diventato un appuntamento fisso. Ormai è quasi difficile pensarlo come una serie. È più un’antologia di idee, spunti, di critiche su dove stiamo andando. Meglio ancora, dove stiamo andando insieme a quello che stiamo creando. Da qui in poi vi avvisiamo: ci saranno degli spoiler. La settima stagione è aggiornata con tutte le tecnologie di cui parliamo ogni giorno. Ci sono i computer quantistici, c’è ovviamente l’intelligenza artificiale e compaiono anche gli ultimi visori sul mercato. In Bête Noire si avvista un Apple Vision Pro. Ma forse in questa serie, ancora più che nelle altre, si trova una sfumatura che attraversa tutti gli episodi della serie.
Per quanto le tecnologie aprano a scenari terribili, tutti i protagonisti della nuova stagione si fanno travolgere da questi scenari perché sono soli. Non c’è nessuno accanto a loro mentre si trovano davanti a uno schermo, mentre si perdono nell’intelligenza artificiale, mentre le allucinazioni di un videogioco prendono vita.
Una società in cui esistiamo solo noi e gli schermi
Certo. Esistono anche esigenze di trama. L’obiettivo di Black Mirror è confezionare storie che durino un’ora. Funzionano meglio quelle con pochi protagonisti, magari tutte attorno a un singolo evento. In questa stagione però i fari del set si accendono quasi sempre mentre i protagonisti sono soli davanti a un pc o a uno schermo. Lo vediamo in Common People, la prima e discussa puntata. Amanda scopre di avere un tumore alla testa, incurabile. Mike, il compagno, accetta la proposta di una startup che offre un nuovo tipo di trapianto. La parte di cervello vicino al tumore viene rimossa e sostituita con tessuto sintetico. Il funzionamento viene garantito da un servizio in cloud che ha un costo mensile.
Una volta fatto l’intervento succede quello che succede sempre con i servizi in abbonamento: i costi aumentano. Crescono un pezzo alla volta. Le offerte cambiano, si riducono e diventano ingestibili. Mike e Amanda hanno due lavori comuni, non riescono a pagare tutto. E così Mike si ritrova su un sito di live streaming a bere la sua urina per guadagnare qualche dollaro in più.
Attorno a loro non c’è nessuno. Non c’è una società ristretta. Non ci sono famiglie a cui chiedere aiuto. Non ci sono amici con cui confrontarsi o colleghi a cui parlare. Ma non c’è neanche una società allargata. La loro storia non diventa mai pubblica. Non parte una campagna sui social, una protesta in strada e non ci sono tv o giornali. Resta una dramma privato in cui l’unica soluzione diventa farsi scattare una trappola per topi sulla lingua mentre degli sconosciuti ridono e inviano denaro.
Qui prodest?
Ed è così anche nel resto. In Hotel Reverie l’attrice Brandy preferisce perdersi in una realtà creata dall’intelligenza artificiale invece di tornare alla sua vita. In Plaything un recensore di videogame si chiude nella sua stanza per cominciare un dialogo con delle piccole creature di pixel sullo schermo. Il vero problema però è sempre un passo prima. La tecnologia, che si parli di nuovi strumenti o nuove piattaforme, non nasce da una nuvola cosmica. È il frutto del lavoro di persone, di riunioni, di prove, di decisioni e strategie di mercato. È un fatto umano. E la domanda che parte da questa stagione di Black Mirror è molto chiara: a chi conviene farci sentire così soli?
