Fabbriche di ricordi e bordelli virtuali: dentro le stanze più strane del Festival di Venezia
Non c'è solo il cinema proiettato sullo schermo al Festival di Venezia 2023. Un mondo sospeso, fatto di stanze che fabbricano i ricordi, donne beduine lungo le strade, città senza esseri umani, amici immaginari e un bordello di Rio de Janeiro dove espiare i propri peccati. Basta prendere un battello, raggiungere l'isola del Lazzaretto Vecchio, ed entrare in Venice Immersive o "il mio bambino", come lo chiama il curatore del progetto Michel Reilhac. "Abbiamo dedicato questo spazio ai media immersivi e a tutti i mezzi di espressione creativa XR: video a 360° e opere XR di qualsiasi lunghezza, comprese installazioni e mondi virtuali". Non esiste ancora un modello di mercato consolidato e un sistema di distribuzione solido: i dispostivi sono costosi, il business deve ancora assumere una forma, eppure l'arte immersiva sgomitando sta conquistando nuovi spazi, tra questi il red carpet di Venezia.
Partiamo da Venice Immersive.
"Questa è la settima edizione, abbiamo cominciato nel 2016 con una prova, è andata bene, e dal 2017 siamo qui nell’isola del Lazzaretto Vecchio. Quest’anno è l’edizione più grande, e abbiamo anche aperto le porte all’intelligenza artificiale per vedere come verrà utilizzata questa nuova tecnologia per produrre opere".
E che risultati ha dato?
"Per noi è uno strumento tecnologico che serve a raccontare nuove storie. Le persone sono spaventate dall’intelligenza artificiale, soprattutto perché si ha un po’ la sensazione che sia incontrollabile, e invece nelle mani di un artista è capace di creare grandi opere".
Mi fai un esempio?
"Sì, Tulpamancer, amo quest’opera. Lo spettatore entra in una stanza e l’intelligenza artificiale comincia a fargli alcune domande molto personali, per esempio sulle memorie dell’infanzia, o su come immagina la morte. Terminata la prima fase entra in un’altra stanza e indossa un visore e assiste a un corto con una voce narrante costruito sui suoi ricordi, un filmato generato dall’IA molto personale che trasforma le memorie in una storia".
Come reagiscono gli spettatori?
"Molti si commuovono, per altri è quasi un’esperienza spirituale, metafisica. Non è solo curiosità, si vede, è un’esperienza introspettiva cucita addosso a ogni persona che entra in quella stanza".
Come è nata Venice Immersive?
"In realtà io ho cominciato ad avvicinarmi alla realtà virtuale nel 1992".
E com'era nel 1992?
"Beh, qualcosa di decisamente sperimentale, scientifico. Sai negli ‘90 la realtà virtuale aveva provato a entrare nel mondo dei videogiochi ma la tecnologia non era pronta. Io avevo realizzato un'installazione molto rudimentale con cerchi e triangoli nello spazio che fluttuavano, era solo l'inizio. Ho cominciato a esplorare questi mondi e verso il 2013 con l’ondata di nuove tecnologie si sono aperte altre opportunità".
Hai iniziato in quel momento a collaborare con la Biennale?
"Sì, ho cominciato a gestire un workshop per realizzare film con micro budget, ho anche chiesto di esporre le opere, per tre anni ho insistito e poi li ho convinti a fare una prova. Mi hanno detto: trova i finanziamenti e noi ti diamo la sala del Casinò".
Com'è andata?
"È stato un successo, molte persone erano curiose di vedere le opere, e quello è stato il punto di partenza. Ora abbiamo il Lazzaretto dove esponiamo, una gara, e siamo diventati la manifestazione più grande al mondo".
Come mai tutto questo è successo a Venezia? Se non sbaglio c’è anche la prima scuola al mondo di arte immersiva.
"Vero, ci sono studenti e nuovi artisti che stanno imparando. È successo a Venezia perché la Biennale ha deciso di investire nell’arte immersiva, creare sezioni dedicate e attrarre artisti internazionali. Non solo per questi 10 giorni, lavoriamo tutto l’anno e così abbiamo sviluppato un polo di interesse".
Venice Immersive è diventato una parte integrante del Festival del cinema. Mettiamo a confronto queste due forme d’arte?
"Ci sono elementi in comune, è chiaro, però l'idioma narrativo è decisamente diverso. Nel cinema lo spettatore è passivo, nell’arte immersiva no. Anzi la storia non può andare avanti senza il contributo di chi guarda, e questo al di là dell’aspetto tecnologico cambia proprio la modalità di fruizione. È una nuova forma d’arte che deve includere lo spettatore all’interno della storia".
E questo inciderà sul cinema?
"Ti dirò, lo sta già facendo. Vedo un desiderio di immersività in quello che noi chiamiamo cinema classico o piatto, per via della bidimensionalità dello schermo. Sta prendendo forma anche un nuovo modo di filmare, a 360 gradi, dove il regista è più libero di muoversi, come se fosse davvero dentro una realtà virtuale".
Però al momento manca un mercato e anche un modello di distribuzione.
"Sì, e questo è un problema. Ma siamo ancora all'inizio è normale, far vedere cosa è possibile fare con la realtà virtuale, non solo nell’ambito dei videogiochi, ma anche a livello artistico, è fondamentale. Per ora il modello migliore per incentivare il mercato è sfruttare gli spazi espositivi, presenti in tutto il mondo, che presentano opere create con la realtà immersiva. Un modo per far vedere a tutti le potenzialità di questa nuova forma d’arte".
Qual è l'opera che ti ha fatto innamorare dell’arte immersiva?
"Devo tornare al 1992 a quell’opera molto arcaica e semplice, quella dei triangoli e cerchi che fluttuavano nel vuoto. Mi ricordo che la stavo guardando e ho pensato: questo è il futuro. Poi in realtà ce n’è anche un’altra che mi ha toccato. Praticamente l’opera consisteva nel simulare la perdita della vista, in altre parole diventavi cieco. Mi ha commosso".
L’arte immersiva ha fatto passi avanti, quest’anno cammina anche sul red carpet?
"Sì, siamo sul red carpet è questo è molto importante. Parteciperemo alla premiazione dei film e terremo in mano gli stessi Leoni d’oro. Un messaggio importante perché è l’unico modo per riconoscere e legittimare l’arte immersiva".