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Cosa è stato sbagliato nel salvataggio Alfredino Rampi nel pozzo: analisi dell’incidente del Vermicino

L’incidente di Vermicino, oltre a essere uno dei primi casi mediatici italiani, ha segnato un punto di svolta nell’organizzazione dei soccorsi in caso di emergenze. Numerosi gli sbagli fatti nel tentativo di salvare il bambino: prima la tavoletta incastrata nel pozzo, poi le operazioni di scavo che hanno fatto scivolare Alfredino più in basso, poi i volontari calati a testa in giù nel pozzo quando ormai era troppo tardi.
A cura di Velia Alvich
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Oltre 60 ore incastrato in un pozzo mentre l'Italia guardava in diretta televisiva, con il fiato sospeso. Alla fine, il 13 giugno, il piccolo Alfredo Rampi è morto. Quello che è passato alla storia come l'incidente del Vermicino, dalla località vicino Frascati dove è accaduto tutto, è cominciato il 10 giugno 1981. In quelle 60 ore, i numerosi tentativi di salvare Alfredino si sono conclusi con un fallimento.

L'incidente è diventato famoso non solo per la portata della tragedia, ma anche perché è stato trasmesso in diretta per la prima volta nella storia della televisione italiana. Un evento che ha lasciato il segno, in tutti i sensi. Poco tempo dopo, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che era accorso sul luogo della tragedia e aveva seguito passo dopo passo gli sviluppi, ha raccolto l'appello della madre di Alfredino, Franca Bizzarri: trovare un modo affiché non si arrivasse mai più a una simile disorganizzazione in un momento di emergenza, dove la coordinazione è fondamentale. Proprio così, poco tempo dopo, è stata istituita la Protezione Civile. Una decisione presa per non fare ripetere più gli errori che hanno contribuito alla morte del bambino.

Come Alfredino è caduto nel pozzo artesiano

Le vacanze nella casa dove passavano l'estate, nelle campagne romane. Qui una sera di giugno, dopo una passeggiata con il padre Ferdinando, il piccolo Alfredo aveva chiesto di poter tornare a casa da solo, tagliando attraverso i campi. Il padre credeva di trovarlo già lì una volta rientrato, ma Alfredino era già caduto in un pozzo artesiano costruito in un campo là vicino per accedere alla falda acquifera senza dovere utilizzare sistemi di pompaggio. Questo il primo degli errori fatali: il pozzo non era stato delimitato in nessuna maniera, né era stato coperto. A chiuderlo con una lamiera poco dopo la caduta del bambino era stato Amedeo Pisegna, un insegnante abruzzese, che non si era accorto di nulla.

Un pozzo molto profondo: per raggiungere la falda era stato scavato fino a raggiungere gli 80 metri di profondità. La larghezza, invece, era di appena 28 centimetri all'imboccatura. Abbastanza largo da fare cadere un bambino, ma così stretto da rendere difficili le operazioni di soccorso che sono cominciate da lì a poche ore.

Il primo tentativo di salvataggio con la tavoletta

Da quel momento è cominciata l'odissea per salvare Alfredino. È stato già il primo tentativo a complicare ancora di più le operazioni di soccorso, già rese difficili dalla situazione che ora dopo ora diventava sempre più caotica: una tavoletta, spessa circa due centimetri, è stata calata con una corda dentro il pozzo, così da consentire al bambino di attaccarsi ed essere portato fuori. Ma le pareti irregolari del pozzo si restringevano sempre di più andando in profondità.

Così la tavoletta, invece di raggiungere Alfredo alla profondità stimata di 36 metri, si è fermata a una decina di metri sopra la sua testa, incastrata fra le irregolarità delle pareti. Non solo: la corda usata per calare lo strumento improvvisato si è spezzata all'improvviso, lasciando così la tavoletta a intralciare le successive operazioni di salvataggio, nonostante i tentativi di romperla per liberare il passaggio.

A quel punto i soccorritori hanno pensato a un secondo metodo: scavare un secondo pozzo, parallelo a quello dove si trovava incastrato Alfredino, per raggiungerlo grazie a un tunnel. Un tentativo che ha peggiorato la situazione.

Il secondo tentativo e gli errori fatti scavando un pozzo parallelo

Un secondo pozzo largo 90 centimetri e profondo fino a raggiungere il bambino con un tunnel a unire le due aperture verticali. Una scelta presa quando erano passate già diverse ore dalla caduta di Alfredino e che è stata rallentata anche dalla necessità di fare arrivare i mezzi adatti per scavare.

La soluzione, però, ha avuto come effetto solo quello di complicare ulteriormente il salvataggio. Le operazioni di scavo, infatti, sono state fatte ad appena due metri di distanza dall'altro pozzo. Quello che gli ingegneri non avevano calcolato è che le vibrazioni della escavatrice avrebbero potuto fare scivolare Alfredino ancora più giù. E il risultato è stato proprio quello.

Dopo avere scavato il tunnel orizzontale per raggiungere il pozzo principale, i soccorritori si sono accorti che nel mentre il bambino era slittato ulteriormente, arrivando fino ai 60 metri di profondità. L'idea di scavare più lontano rispetto alla posizione di Alfredo fu proposta solo molto tempo dopo, grazie all'intuizione di un gruppo di minatori che alla fine hanno recuperato la salma. In quel caso, il terzo pozzo è stato scavato quindici metri più in là, così da non causare ulteriori cedimenti.

Non solo l'operazione del secondo pozzo si è rivelata inutile e dannosa, ma nel mentre sono state perse ore preziose. In particolare perché le stime dei tempi di scavo non avevano tenuto in considerazione la natura del terreno (come la geologa Laura Bortolani aveva consigliato di considerare). Dopo avere superato gli strati più friabili del terreno, le escavatrici hanno incontrato uno strato roccioso (soprattutto peperino, una roccia magmatica) che ha allungato più del doppio le operazioni rispetto alle 12 ore previste all'inizio.

Gli ultimi tentativi di recuperare Alfredino facendo scendere dei volontari

A quel punto era stata fatta una lunga serie di errori che aveva portato i tentativi di salvataggio a dilungarsi. Solo in quel momento si valutò di nuovo la possibilità di fare scendere volontari (alcuni tentativi erano stati già fatti, senza successo). Diverse persone furono imbragate e calate nel pozzo a testa giù nel tentativo di afferrare il bambino a mani nude. Fra le numerose discese sono rimaste famose quella di Angelo Licheri e quella di Donato Caruso, l'ultimo a provarci prima che venisse calato uno stetoscopio per sentire il battito del bambino. Ma ormai era troppo tardi: dopo oltre sessanta ore di attesa, decine di tentativi falliti, il caos organizzativo e la presenza costante di stampa e curiosi, Alfredino era ormai morto.

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