Non sono fotogenica. Nella maggior parte degli scatti ho gli occhi chiusi, il sorriso sghembo o la palpebra calante e per questo dovrei essere davvero felice del nuovo strumento di Google “in grado di modificare rapidamente i volti delle persone nelle fotografie con l’intelligenza artificiale”. Eppure mi spaventa moltissimo. “Con Best Take puoi finalmente ottenere quello scatto in cui tutti sono come vuoi che appaiano”. Questa frase l'ha detta Isaac Reynolds di Google, a capo del team che sviluppa i sistemi di fotocamere degli smartphone dell'azienda.
Durante la presentazione del Pixel 8, nuovo smartphone di Google, Reynolds ha detto che l'immagine è la "rappresentazione di un momento", un momento che però non è mai esistito. Ma non importa, perché noi la verità non la vogliamo. Preferiamo immagini bellissime, dove siamo bellissimi, e gli smartphone di ultima generazione sono programmati per questo.
Come ha spiegato il professor Rafal Mantiuk, esperto di grafica e display dell'Università di Cambridge, alla Bbc: “L'intero processo di elaborazione delle immagini negli smartphone è pensato per produrre foto belle, non reali." Ci affidiamo all’apprendimento automatico per “inserire” informazioni che non esistono nella foto, e per togliere ogni elemento di disturbo c’è la “gomma magica” che cancella quello che non ci piace.
D’altronde abbiamo imparato a vivere nel mondo delle mezze verità. Abbiamo raggiunto la consapevolezza che la certezza assoluta altro non è che “un mito rassicurativo proprio di un’umanità ancora primitiva e barbara” come scrivevano Giovanni Fornero e Salvatore Tassinari. Questa è l’eredità che ci ha lasciato il Novecento e la filosofia post moderna. E infatti con Lyotard, Derrida, Rorty, Vattimo e Bauman si abbandona il concetto di verità universale. Gli smartphone che spalancano i nostri occhi e tirano i sorrisi sembrano la deriva più inquietante e inconsapevole di questa rinuncia. Sono le macchine in grado di generare con un click post verità in serie.
La promessa di Best Take
La nuova funzionalità è semplicissima, l'ho provata. Bisogna scattare una decina di foto in serie, poi sceglierne una, cliccare su modifica, e selezionare Best Take, a quel punto appaiono slot diversi dello stesso viso con diverse espressioni. Sorridente, imbronciato, con la lingua fuori, la testa inclinata, le labbra chiuse. Si sceglie una versione e la foto magicamente si trasforma dando vita a una realtà sintetica.
Questo meccanismo non è nuovo, in realtà già lo conosciamo. Basti pensare a tutte le volte che passando davanti a un bel panorama abbiamo provato compassione per quell’amica, fidanzato, sventurata compagna, costretti a scattare 278 fotografie all’aspirante influencer. Fotografie che vengono poi passate attentamente al vaglio, selezionate, modificate con filtri, software per rendere la pelle luminosa, le ciglia più folte, la cosce più magre e solo dopo, pubblicate su Instagram.
C'era già stata la Luna di Samsung
La manipolazione delle fotografie è nata insieme alla forma d’arte, ora però è diverso perché è tutto più semplice e accessibile con l’intelligenza artificiale. Il campanello d’allarme era già suonato quando Samsung aveva presentato il suo modello S23 Ultra in grado di fotografare la Luna. Chiunque ci abbia provato lo sa. In ogni scatto il satellite finisce per trasformarsi in una specie di lampione irradiato di luce bianca sfocata in mezzo al cielo. Non con quel Samsung. Lo scatto base di per sé è mediocre, ma grazie all’intelligenza artificiale si trasforma in eccezionale. La camera di Samsung aggiunge infatti elementi recuperati dal suo set di dati usando dei punti di ancoraggio che vengono riconosciuti nel nostro scatto. Google ora fa un passo avanti.
Cosa rimane della fotografia
Susan Sontag, scrittrice e filosofa statunitense aveva scritto quasi mezzo secolo fa: “La fotografia non è solo un'immagine (come un dipinto), un'interpretazione del reale, è anche una traccia, qualcosa ricavato direttamente dal reale, come un'impronta o una maschera mortuaria”. Nell’era dell’intelligenza artificiale la fotografia diventa altro. Uno specchio del narcisismo, un deepfake, uno strumento per creare disinformazione, la rappresentazione di un momento “piegato al nostro volere” come diceva Raynolds. Qualcosa insomma di molto lontano dalla traccia descritta da Sontag, e pericolosamente vicino a uno scollamento definitivo con quello che ci circonda. E in un mondo dove non riusciamo più a guardare il reale per quel che è, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono i software che ci aprono gli occhi per finta.