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Come possiamo fare per disintossicarci dal telefono, l’esperto: “C’è una regola da seguire”

Oggi non esiste una definizione clinica di “dipendenza tecnologica” anche perché manca la sostanza che crea dipendenza. Il dott. Fumagalli, psicologo e membro dell’associazione Di.Te.: “Il cervello dei giovani è abituato a continue scariche di dopamina. E i social network sono organizzati con gli stessi meccanismi del gioco d’azzardo”.
Intervista a Dott. Matteo Fumagalli
Psicologo, psicoterapeuta e membro di Di.Te., Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo
A cura di Velia Alvich
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Società iperconnesse dove vivono persone iperconnesse. Fare a meno degli smartphone non è quasi più una possibilità percorribile, a meno di scelte estreme di vita o di brevi periodi forzati senza telefono. Oppure in caso di digital detox, cioè un periodo di "disintossicazione digitale" durante il quale si decide consapevolmente di lasciare da parte ogni dispositivo elettronico (o quelli che si usano di più).

Un modo per dimenticarsi lasciarsi alle spalle notifiche assillanti e scrolling compulsivo. Per capire se e quando serve, abbiamo chiesto a Matteo Fumagalli, psicologo, psicoterapeuta e socio formatore dell’associazione Di.Te. (Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo) di spiegare quando e come fare un periodo di digital detox.

Esiste una vera "dipendenza da smartphone"?

In campo clinico c'è un dibattito molto aperto. Si può parlare di dipendenze tecnologiche. I principali strumenti diagnostici psichiatrici, il DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e l’ICD (International Classification of Diseases), hanno provato a mettere delle loro categorie diagnostiche come l'Internet Gaming Disorder e l'Internet Addiction. Però la questione epistemologica e clinica è ancora sottoposta a un dibattito. Quello che ci interessa è di iniziare a parlarne, anche se la questione delle dipendenze non è ancora chiara.

Perché?

Perché per esempio lo smartphone non è considerato una sostanza. Non è l'eroina, la cocaina, l’alcool. Non è qualcosa che assumi. In realtà dovremmo effettivamente ripensare al termine “sostanza”, e in questo caso parlare più di dipendenza comportamentale.

Quindi su cosa dobbiamo concentrarci?

Dobbiamo interrogarci sulla dittatura degli schermi. Per il corpo lo schermo è un'esperienza che ha un certo potere attrattivo a livello neuronale, perché polarizza fortemente l'attenzione. Se tu sei nello schermo, non sei lì nell'ambiente. Cioè sei dislocato, non sei nel luogo. Si tratta della stessa cosa dei tossicodipendenti: se sei nell’eroina, sei nell’eroina. Allo stesso modo, se sei nello smartphone, allora sei nello smartphone.

In che senso?

Lo schermo a livello di sensorialità ha un potere attrattivo che altri strumenti non hanno, non è uno strumento qualunque. Quando vado nelle scuole a fare formazione, parto sempre da questo presupposto molto banale: “Sapete che lo smartphone non è un martello?”. I ragazzi dicono di saperlo, ma quando gli chiedo il perché non sanno rispondermi. Non sono equivalenti.

Perché non lo sono?

Il martello è uno strumento: quando lo impugni, il cervello lo fa tuo. Lo schema percettivo e motorio lo rendono proprio, lo incorporano. Il martello lo usi e quindi finalizza un gesto. Ma lo smartphone non funziona così, non è un semplice strumento. Non lo comandi, ma sei al contrario tu a diventare la protesi dello smartphone.

Dunque quando si può parlare di un uso non normale dello smartphone?

Ci piacerebbe tanto avere un confine così definito fra normale e patologico, ma nell’impatto con le nuove tecnologie un confine netto viene meno, perché la cosiddetta addiction (cioè dipendenza, ndr) della contemporaneità non è più come quelle vecchie. Trent’anni fa il tossicodipendente veniva etichettato anche socialmente, perché esisteva un uso specifico della sostanza. C'era una sostanza che veniva riconosciuta come tale. Ma qua la sostanza ormai è diffusa. Oggi se interagisci con lo smartphone inevitabilmente se già dipendente, perché è proprio il suo obiettivo.

Per come sono strutturati lo smartphone e la nostra società, adesso è un’esperienza totalizzante. Il digital detox servirebbe per liberarcene?

Il detox è uno strumento per articolare qualcosa di saturante. Noi, come associazione Di.Te., lo proponiamo anche ad intere piccole cittadine. Ma la questione non è togliere lo smartphone e basta, soprattutto negli adolescenti. Riuscire a creare una realtà alternativa a quella virtuale, che diventa sufficientemente motivante e attrattiva da mettere un argine al potere dello schermo dello smartphone, questo sarebbe il vero detox.

Cioè sentirsi implicati in altro che non sia il telefono. Come una sorta di dieta, non possiamo dire basta allo smartphone. I Paesi nordici come la Danimarca hanno capito che devono offrire attività alternative, i cosiddetti spazi neutri. Se il ragazzo trova un luogo per lasciare il telefono e interagire con i pari, poi ci rimarrà lì e si sentirà meno attratto dallo smartphone. Il detox si può fare.

E qui in Italia?

Quando nelle scuole proponiamo giornate detox o il progetto Disconnected, diciamo ai ragazzi di mettere il cellulare dentro una busta sigillata che rimane a loro e vedere se riescono a resistere senza aprire la busta fino al prossimo incontro, due giorni dopo. E nell’incontro successivo cerchiamo di dibattere con loro su cosa è successo, come si sono sentiti senza smartphone. C’era chi apriva la busta appena uscito da scuola e chi invece riusciva a resistere fino all’incontro successivo. Due giorni sono un’enormità per un ragazzo di sedici anni.

Quindi ci sono degli adolescenti che lo farebbero il digital detox?

Diciamo che ci sono dei fenomeni di nicchia dove i ragazzi stanno cercando di fare detox dagli smartphone andando a riprendere il Nokia 3310. Vogliono ridurre l'impatto percettivo e la disponibilità che lo smartphone ti dà. Con questi telefoni puoi scrivere SMS e non puoi registrare vocali, oppure chiamano, cosa che adesso non fa più nessuno fra i ragazzi.

Quindi è possibile praticare un digital detox senza, però, creare delle alternative?

A mio parere no. Se il digital detox lo pratico io, posso farcela perché ho 40 anni e avendo una cultura dell’analogico, della lettura, della concentrazione. Io vivo la tecnologia in senso conflittuale, perché crea più ansia che eccitazione. Ma non è così un cervello che è stato abituato a continue scariche dopaminergiche indotte proprio dall'uso dello smartphone e, in particolare, dal sistema del social network.

Questi sono stati organizzati con gli stessi identici meccanismi del gioco d'azzardo, cioè con la ricompensa variabile indipendente, che non sai prevedere. È proprio questa mancanza di previsione a far rimanere attaccato allo smartphone: l'attesa del messaggio che non sai quando arriverà, l’attesa del feedback quando hai caricato una foto perché capire quanti like arriveranno. Siamo sempre sui social o alla ricerca di validazione sociale oppure nello scrolling che è una forma amplificatissima del vecchio zapping.

Togliendo lo smartphone e lasciando solo il computer, cambierebbe qualcosa?

È difficile perché effettivamente oramai il computer c'è. Lo smartphone ha una portabilità, una manualità che il computer non ha perché devi aprirlo, avviarlo, avere una connessione disponibile. Lo smartphone è proprio il punto della rivoluzione digitale. Quando è uscito, il mondo è stato sconvolto. Lo smartphone ha la stessa potenza che ha avuto la macchina a vapore, che ha sconvolto il paesaggio sociale e urbano.

Ha una potenza maggiore grazia alla sua diffusione: il bambino che sta nell’Himalaya, quello che sta sulle Ande e quello che si trova a Milano, tutte e tre hanno lo smartphone e crescono con la stessa identica procedura cognitiva, perché lo smartphone è omogeneo, omologa un'interazione. Ci troviamo in una fase di globalizzazione delle mentale che annulla le differenze. Un bene o male? Non lo sappiamo.

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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