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Una squadra di chef per i malati di Sla, la storia di Davide: “La malattia spaventa, così superiamo l’isolamento”

Dopo la diagnosi di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), Davide Rafanelli ha fondato Slafood, un’associazione no profit che punta a restituire la possibilità di mangiare ai pazienti di Sla affetti da disfagia con menù ad hoc. Il suo racconto a Fanpage.it: “La malattia fa paura, ma fa parte della vita e con l’aiuto di tutti possiamo continuare a viverla”.
Intervista a Davide Rafanelli
Presidente di Slafood
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Foto di Davide Rafanelli
Foto di Davide Rafanelli

"Io non sono felice di essere malato, ma sono felice di essere vivo e voglio continuare a farlo finché potrò". Davide Rafanelli ha 55 anni ed è presidente di Slafood, un'associazione no profit che punta a raccogliere fondi per la ricerca a sostegno dei malati di Sla, la sclerosi laterale amiotrofica, facendo sensibilizzazione per far conoscere la malattia e rimuovere il tabù che ancora pesa su chi ne è affetto. Come si intuisce dal nome, lo strumento attraverso cui lo fa è il cibo: con la collaborazione volontaria di chef di tutta Italia, Slafood si impegna a creare piatti e ricette che anche i malati di Sla possono mangiare, per restituire loro il piacere del cibo e la convivialità che solo un pranzo insieme può regalare.

Avremmo potuto iniziare il racconto della sua storia, dicendovi che è affetto da Sla bulbare, una delle forme più aggressive della malattia, da due anni, ma non abbiamo voluto farlo perché prima di essere un malato di Sla, Davide è tante altre cose: un imprenditore nel settore food da anni, un attivista per l'inclusione – prima della malattia gestiva diverse gelaterie dove lavoravano ragazzi e ragazze con sindrome di down o autismo – è un papà e un uomo impegnato in molte attività.

Usiamo il tempo presente, perché lo è ancora oggi, nonostante le difficoltà che la malattia gli impone: oltre a essere il fondatore e presidente di Slafood, è consigliere nazionale Aisla, Associazione nazionale sclerosi laterale amiotrofica. "Scusa il ritardo, ma avevo una riunione importante": è iniziata così la nostra intervista su Fanpage.it in cui ha raccontato la sua storia e quella del suo progetto.

Com'è nato il progetto Slafood?

Il progetto Slafood nasce in un reparto di terapia di rianimazione. Avevo ricevuto da poco la diagnosi di Sla, all'inizio è stato difficile: è una diagnosi che ti stravolge la vita, perché nel momento in cui la ricevi sai perfettamente che la tua vita è al termine. Per la Sla infatti al momento non esiste ancora una cura, voglio sottolineare al momento perché spero davvero che grazie alla ricerca prima o poi non sarà più così ma appena scopri di essere malato, ti crolla il mondo addosso.

Poi cosa ti è successo?

Metabolizzato il colpo iniziale, ho scelto di continuare a vivere, di non fermarmi a una diagnosi, perché sapevo che c'erano ancora molte cose da fare. Purtroppo però dopo due mesi ho avuto una forte reazione immunitaria che mi ha procurato una miocardite acuta, una forte polmonite e una setticemia. Ero in fin di vita: sono finito in terapia intensiva, tra la vita e la morte. Eppure nei momenti di lucidità mi dicevo: "Davide, se ce la farai a uscirne vivo devi fare qualcosa per ridare indietro tutto quello che ha ricevuto in questi 52 anni. Mi sentivo in dovere di restituire il bene che la vita mi aveva donato".

A cosa pensavi?

Mentre sei in rianimazione hai tanto tempo per pensare. Allora mi sono chiesto “Io cosa so fare?". Mi sono sempre occupato di ristorazione e del settore food, conoscevo molti chef e ristoratori, oltre a essere presidente di un progetto di inclusione sociale e lavorativa. Gestivo alcune gelaterie con ragazzi down, autistici o con forme di disabilità: è stata un’esperienza meravigliosa ed è anche grazie a loro che ho trovato la forza di capire quale fosse il mio posto in questa seconda fase della mia vita.

Come sei riuscito a costruire tutto partendo dalla tua idea?

Quando sono uscito dall'ospedale, ho pensato chi potevo chiamare. Avevo la fortuna di conoscere da tanti anni Roberto Carcangiu, presidente dell'Associazione Professionale Cuochi Italiani. L'ho chiamato e gli ho detto: “Roberto ho avuto un’idea, vorrei parlare di Sla, lo si fa troppo poco. Possiamo rendere il racconto di questa malattia, se non più simpatica – sarebbe impossibile – ma almeno più leggerla. Perché non la raccontiamo attraverso la cucina?".

Le persone fanno fatica ad avvicinarsi a questa malattia, è respingente e fa paura, ma questo è un problema: questa distanza ricade soprattutto sulle persone malate e sulle loro famiglie, oltre a penalizzare la ricerca a causa dei pochi fondi. Il mio obiettivo era provare a sdoganare la solitudine in cui vivono un malato di Sla la sua famiglia.

Poi ho contattato gli chef Roberto Valbuzzi e Fabio Zanetello, due miei cari amici da tempo, e anche loro mi hanno dato fin da subito la loro disponibilità. Così abbiamo chiamato tutti gli chef e cuochi che conoscevamo per invitarli a prendere parte al nostro progetto. Ho trovato un entusiasmo, una disponibilità di anime buone, che mi ha davvero stupito, anche perché tutti i nostri volontari non ricevono nessun tipo di retribuzione. Cerchiamo infatti di destinare l'intero incasso dei nostri eventi e delle nostre cene alla ricerca e all'assistenza delle persone affette da Sla.

Perché le persone fanno così fatica ad avvicinarsi a questa malattia?

Slafood nasce proprio con questo obiettivo. Nel racconto attuale del cammino di un paziente di Sla manca infatti l’empatia con la società. Questo comporta una mancanza di donazioni e quindi si fondi per tutti gli ambiti che riguardano la malattia, la ricerca, l’assistenza al paziente e alla famiglia. Perché la Sla è una malattia familiare, che non colpisce solo il paziente ma l'intera famiglia.

Cosa significa per un malato di Sla poter mangiare di nuovo? 

Tre malati di Sla su quattro soffrono di disfagia, una condizione che non ti permette di alimentarti naturalmente perché causa occlusione della trachea e il rischio di soffocamento. Attualmente non c’è nessun metodo per risolvere questo problema, per cui le persone affette da Sla sono obbligate a passare dal cibo solido ad alimenti liquidi fino a dover ricorrere all'alimentazione attraverso Peg (gastrostomia percutanea endoscopica), ovvero attraverso una sonda posta direttamente nello stomaco.

Per questo Slafood, insieme ai ricercatori e nutrizionisti del Centro clinico NeMO, l'ospedale che mi ha in carico, ha deciso di creare dei menu per permettere anche al malato disfagico di alimentarsi e di tornare a provare il piacere del cibo e quella convivialità che altrimenti non potrebbe più avere, grazie a ricette ad hoc adatte a tutti, non solo ai malati. Inoltre, sono tutti menù fatti con materie prime povere anche perché le famiglie delle persone con Sla devono affrontare molte spese, quindi è importate che questi piatti siano accessibili a tutti. Tra le ricette nate dal progetto Slafood ci sono ad esempio la crema di carote con carote fermentate, sfera di ricotta e salsa kefir o il melone e gamberi con crema di mandorle e basilico.

Perché è così importante?

Non poter più sedersi a tavola con gli altri porta infatti la persona malata a isolarsi. Il mio obiettivo è permettere alla persona malata di potersi di nuovo sedere a tavola, di ridonargli il vero amore per la tavola, per il gusto e il contatto con il cibo. Potrebbe sembrare superficiale, ma non lo è affatto: lo sto vivendo sulla mia pelle, per un malato che sta perdendo il contatto con la realtà, che di giorno in giorno perde un pezzetto in più, poter tornare in contatto con il cibo è qualcosa di straordinario.

A volte dimentichiamo che una persona malata non è solo la sua malattia.

È proprio così. Spesso si tende a vedere solo la malattia e la persona solo come un malato, ma dobbiamo ricordarci che la malattia stessa fa parte della vita e questo non la rende meno meritevole di essere vissuta. Per questo, soprattutto nel caso si una malattia così dura e senza cura, come la Sla, non puoi aspettarti di guarire per tornare a vivere. Io so che il mio tempo è limitato, ma io non rinuncerò mai a vivermelo. Per questo è importante restituire la dignità di una vita normale al malato. I limiti sono solo negli occhi di chi guarda: se noi vogliamo possiamo continuare a vivere, ma abbiamo bisogno che anche gli altri lo comprendano e ci diano una mano a riuscirci.

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