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Una procedura medica può trasmettere il morbo di Alzheimer, secondo un nuovo studio

Un team di ricerca britannico ha determinato che una procedura medica ormai desueta può trasmettere il morbo di Alzheimer, la principale forma di demenza al mondo. Com’è possibile e quali sono i rischi.
A cura di Andrea Centini
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Potrebbe sembrare assurdo, ma gli scienziati hanno identificato i primi casi di morbo di Alzheimer trasmissibile. Non si sta parlando di una condizione contagiosa alla stregua di una malattia infettiva come l'influenza o la COVID-19, legate – fra le altre cose – alle goccioline respiratorie rilasciate nell'aria, ma di una patologia che può essere trasmessa attraverso determinate procedure mediche. Nel caso specifico, le persone cui è stato diagnosticato l'Alzheimer precoce erano state sottoposte da bambini a un trattamento legato alla somministrazione di un tipo ormone della crescita umano ottenuto dall'ipofisi (o ghiandola pituitaria) di soggetti deceduti. Tecnicamente viene definito dagli esperti con l'acronimo di c-hGH, ovvero ormone della crescita umano derivato da cadavere. È doveroso sottolineare che tale procedura medica è desueta da decenni, essendo stata sostituita dalla somministrazione di ormoni sintetici, proprio in virtù dei potenziali rischi legati a quelli estratti dalle persone morte.

A rilevare i primi casi di morbo di Alzheimer trasmissibile – e sottolineiamo, non contagioso – è stato un team di ricerca britannico guidato da scienziati dell'Institute of Prion Diseases dello University College di Londra (UCL), che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi del Queen Square Institute of Neurology, del National Hospital for Neurology and Neurosurgery e di altri centri. I ricercatori, coordinati dal professor John Collinge, neurologo e primario presso la MRC Prion Unit dell'ateneo inglese, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato i casi di otto persone che, a causa di deficit dell'ormone della crescita e quindi nello sviluppo, decenni addietro erano stati tutti sottoposti al trattamento con c-hGH. Come spiegato nel comunicato stampa dello UCL, tra il 1959 e il 1985 quasi 2.000 persone furono sottoposte a questo trattamento, durato per diversi anni.

La procedura medica fu ritirata proprio nel 1985 quando i ricercatori dell'epoca scoprirono che lotti di questo ormone ottenuto da cadaveri erano risultati contaminati da prioni, ovvero proteine malate (con una forma alterata) in grado di trasmettere la propria anomalia alle proteine sane limitrofe, scatenando ad esempio gravissime patologie neurodegenerative. L'encefalopatia spongiforme bovina, conosciuta col famigerato nome di morbo della mucca pazza, può essere trasmessa all'uomo proprio attraverso questi prioni; in caso di "salto di specie", ad esempio attraverso il consumo del tessuto nervoso bovino infetto, diventa la mortale malattia di Creutzfeldt-Jakob, identificata per la prima volta circa 100 anni fa. In alcuni pazienti sottoposti alla somministrazione dell'ormone sono emersi proprio casi di questa letale malattia (al 100 percento), per questo la procedura è stata sostituita con ormoni sintetici, cioè creati in laboratorio. Se ciò non bastasse, in alcuni campioni di c-hGH è stata rilevata anche contaminazione di beta-amiloide, proteine appiccicose che assieme ai grovigli di proteina tau sono associati al morbo di Alzheimer, la principale forma di demenza al mondo che interessa circa 40 milioni di persone (e triplicheranno entro il 2050, secondo le stime).

Il team del professor Collinge aveva dimostrato che alcuni pazienti colpiti dalla malattia di Creutzfeldt-Jakob dopo il trattamento ormonale avevano sviluppato anche depositi prematuri di placca beta-amiloide nel cervello, inoltre gli ormoni contaminati erano in grado di trasmettere queste placche nel tessuto nervoso dei topi. Poiché cinque dei pazienti coinvolti nel nuovo studio hanno manifestato sintomi di Alzheimer precoce (tra i 38 e i 55 anni) e poiché tutti sono risultati negativi ai test genetici – esistono forme di demenza ereditarie -, gli studiosi sono giunti alla conclusione che il loro Alzheimer era legato proprio alla somministrazione di ormoni contaminati da bambini.

“Abbiamo scoperto che è possibile che la beta-amiloide venga trasmessa e contribuisca allo sviluppo del morbo di Alzheimer. Questa trasmissione si è verificata in seguito al trattamento con una forma ormai obsoleta di ormone della crescita e ha comportato trattamenti ripetuti con materiale contaminato, spesso per diversi anni. Non vi è alcuna indicazione che la malattia di Alzheimer possa essere contratta dal contatto ravvicinato o durante la fornitura di cure di routine”, ha spiegato in un comunicato stampa il dottor Gargi Banerjee, primo autore dello studio. “Non vi è alcun indizio che la malattia di Alzheimer possa essere trasmessa tra individui durante le attività della vita quotidiana o le attività mediche di routine”, gli ha fatto eco il professor Collinge. “Ai pazienti che abbiamo descritto è stato somministrato un trattamento medico specifico e interrotto da tempo che prevedeva l'iniezione di materiale ora noto per essere stato contaminato da proteine correlate alla malattia”, ha chiosato l'esperto, sottolineando che questa scoperta deve portare a una revisione di alcune procedure mediche o chirurgiche per prevenire che tale trasmissione possa verificarsi.

Poiché malattie prioniche e Alzheimer sembrano inoltre avere processi patologici in comune, per gli studiosi le informazioni raccolte potrebbe avere “importanti implicazioni per la comprensione e il trattamento della malattia di Alzheimer in futuro”. I dettagli della ricerca “Iatrogenic Alzheimer’s disease in recipients of cadaveric pituitary-derived growth hormone” sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.

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