Trovate le prime ossa di un “gladiatore” sbranato da un leone: sono molto lontane da Roma

Documenti storici e opere d'arte attestano senza ombra di dubbio che i cruenti spettacoli con i gladiatori giocavano un ruolo significativo nella società dell'Antica Roma, rappresentando uno dei più apprezzati eventi di intrattenimento dell'epoca. Tra i combattimenti più brutali in assoluto vi erano quelli tra esseri umani – i cosiddetti Bestiarii – e animali selvatici come i grandi carnivori. Fra essi tigri, leoni, orsi e altre “fiere”, che venivano trascinate nelle arene dalle più remote località conquistate dall'Impero Romano. È doveroso sottolineare che un Bestiarius era spesso uno schiavo, un condannato a morte o una persona libera che si lanciava in simili imprese per gloria e denaro, mentre i gladiatori combattevano principalmente contro altri uomini e godevano di un rispettabile status sociale. Anche questi ultimi, comunque, potevano affrontare gli animali nelle arene.
Nonostante la ricca documentazione storica, come i mosaici in Tunisia o i testi scritti di Seneca e Svetonio che hanno descritto nel dettaglio significato e rappresentazione dei “giochi”, fino ad oggi non avevamo prove osteologiche dei feroci scontri tra gladiatori e animali. Grazie all'analisi dello scheletro di un uomo robusto con un'età compresa tra i 26 e i 35 anni vissuto circa 1.800 anni fa, tuttavia, gli archeologi sono fiduciosi di aver trovato le prime prove in assoluto di questo genere.
Più nello specifico, sono state trovate ossa con segni corrispondenti ai morsi di un leone, recuperate in quello che gli scienziati ritengono essere un vero e proprio cimitero per gladiatori. A scoprire e descrivere queste eccezionali prove, dall'elevatissimo significato storico e archeologico, è stato un team di ricerca britannico guidato da scienziati dell'Università di Maynooth, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di diversi istituti. Fra quelli coinvolti il Cranfield's Forensic Institute dell'Università Cranfield; lo York Archaeological Trust; il Dipartimento di Archeologia dell'Università di York; il Dipartimento di Studi Classici del King's College di Londra; e il Dipartimento di Archeologia dell'Università di Durham.

Il lavoro dei ricercatori, coordinati dal professor Tim Thompson del Dipartimento di Antropologia dell'ateneo irlandese, affonda le sue radici in una scoperta avvenuta nel 2004, quando gli archeologi scoprirono un cimitero romano risalente al II o III secolo dopo Cristo a York, su una strada della Britannia inferiore (provincia dell'Impero Romano) che collegava l'attuale cittadina inglese del North Yorkshire a Tadcaster. Si ritiene che fino al IV secolo d.C. la città abbia ospitato gli spettacoli con gladiatori, essendo del resto frequentata da elementi di spicco dell'antica società romana e generali, compreso Costantino “che si autoproclamò imperatore nel 306 d.C.”, come spiegato dagli autori dello studio in un comunicato stampa.
Inizialmente si pensava che questo cimitero fosse costruito per ospitare schiavi, soldati o le vittime di un orrendo massacro, ma le analisi delle decine di scheletri trovate all'interno hanno infine indicato che era proprio destinato alle vittime dei giochi gladiatori. Si trattava infatti di uomini robusti delle più disparate origini e con segni di ferite guarite, esattamente come osservato in altri siti funerari per gladiatori, ad esempio quello di Efeso. Inoltre molti scheletri erano decapitati da dietro, un rituale dalla funzione ignota che spesso coinvolgeva i gladiatori deceduti.
Tra i numerosi scheletri recuperati, ve n'è uno che ha attirato l'attenzione dei ricercatori, assegnato a un individuo con nome in codice 6DT19. L'uomo, come indicato, quando morì aveva un'età compresa tra i 26 e i 35 anni. Dalle analisi è emerso che ebbe problemi di malnutrizione infantile (dalla quale aveva comunque recuperato), infiammazione polmonare e problemi alla colonna vertebrale, fra le altre cose. Ciò che ha attirato maggiormente l'attenzione erano tuttavia le ossa del suo bacino, sulle quali sono stati rilevati degli evidenti buchi. Ebbene, secondo gli autori dello studio, questi fori sono un chiaro segno di morsi da parte di un leone (o comunque di un grande felino affine). I ricercatori hanno trovato una corrispondenza mettendo a confronto i segni rilevati con quelli in persone aggredite dai leoni negli zoo. Un dettaglio interessante risiede nel fatto che i buchi non presentano segni di guarigione, pertanto si ritiene che il giovane sia morto combattendo con il leone. Non solo, quei segni non sarebbero legati a un attacco mortale ma a un pasto; il leone potrebbe aver ucciso lo sventurato bestiarius con gli artigli o morsi al collo e poi si sarebbe nutrito del corpo.
“I segni dei morsi sono stati probabilmente provocati da un leone, il che conferma che gli scheletri sepolti nel cimitero erano di gladiatori, piuttosto che di soldati o schiavi, come inizialmente si pensava, e rappresentano la prima conferma osteologica dell'interazione umana con grandi carnivori in un contesto di combattimento o di intrattenimento nel mondo romano”, ha affermato il coautore dello studio Malin Holst, che insegna osteoarcheologia all'Università di York. “Per anni, la nostra comprensione dei combattimenti gladiatori e degli spettacoli con animali romani si è basata in gran parte su testi storici e rappresentazioni artistiche. Questa scoperta fornisce la prima prova diretta e concreta che tali eventi abbiano avuto luogo in questo periodo, rimodellando la nostra percezione della cultura dell'intrattenimento romano nella regione”, gli ha fatto eco il professor Thompson, sottolineando il fascino di una scoperta del genere molto lontana dal Colosseo di Roma.
Ciò suggerisce che gli spettacoli con gladiatori e bestiarius erano diffusi in ogni angolo dell'enorme Impero Romano. Non sappiamo cosa portò quest'uomo a battersi con un leone ma la scoperta del suo scheletro rappresenta una delle scoperte più affascinanti di quella brutale epoca. I dettagli della ricerca “Unique osteological evidence for human-animal gladiatorial combat in Roman Britain” sono stati pubblicati su PloS ONE.