Terremoto in Turchia, sismologo Dal Zilio spiega l’ipotesi del superciclo: “Istanbul è a rischio”
Il 6 febbraio 2023 un devastante terremoto di magnitudo 7.8 ha squassato la Siria e la Turchia, seguito poche ore dopo da un altro violentissimo evento di magnitudo 7.6. La sequenza sismica ha provocato il crollo di migliaia di edifici attraverso una lunghissima “striscia” di terra e la conseguente morte di oltre 50mila persone, in base agli ultimi dati aggiornati. La maggior parte delle vittime si è verificata proprio in Turchia, fulcro del disastro. Gli eventi sismici sono legati all’attivazione di porzioni della faglia dell’Anatolia orientale (East Anatolian Fault), in una zona in cui convergono tre distinte placche tettoniche. Uno studio condotto dai due sismologi Luca Dal Zilio e Jean-Paul Ampuero, rispettivamente dell'ETH di Zurigo e dell'Università della Costa Azzurra, ha indagato a fondo sulle caratteristiche e le dinamiche degli eventi sismici coinvolti, avanzando l'ipotesi che possano far pare di un “superciclo che va oltre i normali cicli sismici”. Abbiamo intervistato il dottor Dal Zilio del Dipartimento di Sismologia e Geodinamica presso l'Istituto di Geofisica dell'ETH di Zurigo per farci spiegare le interessa osservazioni. Ecco cosa ci ha raccontato.
Dottor Dal Zilio, innanzitutto le chiediamo gentilmente di spiegarci cos'è questa ipotesi del superciclo sismico.
In Turchia e in altre parti del mondo ci sono faglie tettoniche fragmentate, cioè suddivise in quelli che noi chiamiamo segmenti di faglia. Questi segmenti sono più o meno lunghi. Attraverso la sismicità storica sappiamo che questa zona ha prodotto vari terremoti, infatti la zona è ad alto rischio sismico e questa non è una novità. Basta guardare la mappa del rischio sismico europeo e la East Anatolian Fault; è considerata una delle faglie più attive in Europa insieme alla North Anatolian Fault, che è invece la grande faglia che passa a Nord della Turchia e vicina a Istanbul. È una zona di faglia altamente sismica. Noi la definiamo come East Anatolian Fault, però è appunto una zona di faglia, non ce n'è solo una, ma varie. È una zona fragmentata dove ci sono diversi segmenti. Grazie alla sismicità storica sappiamo che questi segmenti hanno prodotto periodicamente dei terremoti anche importanti, da magnitudo 7 a magnitudo 7.5 – 7.6, quindi molto simili a quelli che si sono verificati il 6 febbraio. Il punto sostanziale è che nel recente terremoto di magnitudo 7.8 si sono rotti tre segmenti in un colpo solo. Questa è una cosa che non si vede spesso, almeno attraverso la sismicità storica, perché solitamente è difficile riuscire a propagare una rottura per una lunghezza tale come quella dell'evento di magnitudo 7.8. Infatti in questo caso la rottura è stata di circa 300 chilometri. Non ha rotto una faglia, ma tre segmenti di faglia. Uno è molto piccolo, dove la rottura è iniziata; è un segmento soltanto di 10 chilometri, più o meno. E poi ci sono gli altri due che sono superiori ai 130 – 140 chilometri ciascuno. Insieme, combinati, hanno prodotto una lunghezza della rottura di circa 300 chilometri. Tornando al tema del superciclo, che in inglese noi chiamiamo il “supercycle”, si determina perché questi sistemi di faglie producono sismicità. Puntualmente un segmento si rompe, poi si rompe un altro segmento, poi di nuovo il segmento precedente, poi un altro ancora. E poi a un certo punto si arriva alle condizioni più “ideali”, a livello di stress della crosta, che consentono invece di avere proprio una rottura completa. Quindi è un sistema dove c'è un certo grado di caoticità, nel senso che si produce sismicità in un segmento, poi un altro e così via, ma poi ad un certo punto questi piccoli cicli interni portano alle condizioni “ideali” – purtroppo ideali per il terremoto – per far sì che questa rottura propaghi per distanze molto più lunghe rispetto al normale.
Si era già verificato un evento simile in quella zona o in altre parti del mondo con questa dinamica?
Sì, questa cosa si osserva spesso nei margini di placca dove ci sono le cosiddette zone di subduzione. In questo caso si ha varia sismicità, di quelle che noi chiamiamo rotture parziali di una faglia, che puntualmente rompono parzialmente. Quindi 2, 3 volte, anche di più. Sostanzialmente si rompe una zona della faglia e successivamente si rompe di nuovo la stessa zona, perché si accumula facilmente dello stress, mentre le zone circostanti magari non accumulano tale stress. Però in questo caso ci vuole più tempo per arrivare alle condizioni ideali. A un certo punto però le condizioni vengono raggiunte, e quando parte di nuovo quella che dovrebbe essere un'altra rottura parziale si trova invece una zona circostante più matura a livello di stress. Questo fa sì che la rottura si propaghi per distanze più lunghe.
Qualche esempio?
Si è discusso spesso del caso del Giappone, o per esempio del terremoto di Sumatra del 2004, che ha fatto sì che quella rottura si propagasse per più di 1.000 chilometri lungo la zona di faglia. Ovviamente stiamo parlando di terremoti che sono di una scala molto più grande rispetto a quello della Turchia. Per il terremoto di Sumatra del 2004 se non ricordo male stiamo parlando di una magnitudo 9.1 – 9.2, per più di mille chilometri lungo la zona di faglia. Trattandosi di una scala logaritmica si tratta di un terremoto gigantesco se confrontato a quello turco. Però se guardiamo quella zona di faglia, i terremoti che ha prodotto in passato, molte volte ha prodotto rotture parziali fino appunto al 2004, quando è arrivata una rottura molto più grande.
Cosa intendete con la necessità di rivalutare il rischio sismico nell'area colpita dal terremoto del 6 febbraio? I dati che si avevano prima non erano sufficienti?
In realtà no. I dati ci sono, ovviamente è sempre difficile averli, ma in particolare nella zona turca i dati sismici erano chiari. E la mappa del rischio sismico, quella europea, una mappa che basta cercare su Google si trova in 10 secondi, è un'informazione che c'era. Si conosce bene ed è ben sviluppata da vari istituti europei. Nessuna polemica, anzi, è un modo per puntualizzare che il lavoro era stato fatto e le zone a rischio erano state indicate. Ciò nonostante le precauzioni per la Turchia non sono state adeguate. Questa è una evidenza che non possiamo non sottolineare. Ovviamente terremoti come questi, quando iniziano ad avere una magnitudo superiore a 7.5, sono comunque difficili da gestire, questo è vero, però stiamo parlando di una delle zone sismiche più attive al mondo. Insieme alla California, al Giappone e appunto alla Turchia, con queste due faglie, la North Anatolian Fault e la East Anatolian Fault, sono zone altamente sismiche. La sismicità storica ce lo ha fatto vedere. Ora si tratta di focalizzarsi su quello che è l'aspetto futuro. Per esempio, per la North Anatolian Fault, c'è quello che noi chiamiamo in gergo un “Seismic Gap”, un buco sismico, questo perché c'è un segmento che passa a fianco a Istanbul che non ha rotto negli ultimi 250 anni. Studi su Nature sono stati pubblicati di recente, anche più tecnici, e si sa che questa zona è a rischio. È solo una questione di tempo prima che il prossimo terremoto arrivi.
Alla luce del fatto che sono fortemente a rischio e che purtroppo i terremoti non si possono prevedere, cosa consiglierete ai decisori politici? Alla popolazione che si ritrova con questa spada di Damocle sulla testa.
In questa fase è tutto rivolto verso i soccorsi, ma con un progetto a medio e lungo termine occorre focalizzarsi sulla messa in sicurezza delle zone più a rischio. Come appunto la North Anatolian Fault, la zona vicino a Istanbul, dove c'è un rischio significativo. E poi mettere in sicurezza in generale il Paese. Una cosa che abbiamo provato a mettere in chiaro nell'articolo è che il rischio sismico era conosciuto. In Turchia esiste anche un codice a livello legislativo per costruire in modo antisismico. Il problema non è che non esiste la legge, la legge esiste, ma va applicata. È un problema che non si vede solo lì, ma anche in altri Paesi.
Come hanno detto alcuni suoi colleghi sismologi, costruire in modo antisismico in queste zone è indispensabile perché si previene il crollo di migliaia di edifici e dunque i morti. Tuttavia in alcune aree colpite dal recente sisma almeno una parte dei palazzi sarebbe venuta giù comunque, perché si è proprio spaccato il terreno. Innanzi a un rischio del genere non sarebbe opportuno spostarsi altrove? Perlomeno rispetto ai punti più critici
Questo è un ottimo punto. È una cosa che noi in primis possiamo vedere in Italia. Nell'Arco Appenninico abbiamo paesini che sono stati colpiti da terremoti, sono stati ricostruiti e colpiti nuovamente dai terremoti. Parlo di decenni, se non secoli andando indietro. Nell'articolo cerchiamo anche di sottolineare questo aspetto. Non è la prima volta che le persone mi chiedono “perché abbiamo città vicine alle zone di faglia”. Sono stati fatti degli studi e una cosa che secondo me è molto affascinante è il fatto che molte volte le zone di faglia, dove appunto passano delle faglie tettoniche così grandi, sono zone che per ragioni geologiche offrono terreni fertili e condizioni per avere acqua. Producono una grande biodiversità. Quindi storicamente sono zone dove l'uomo si è spostato perché erano favorevoli. Ci sono studi che lo confermano. E un altro aspetto è legato al fatto che questi terremoti hanno purtroppo un periodo di ritorno lungo, 60 anni, 80 anni, 100 anni, e questo fa si che si perda la memoria tra una generazione e l'altra. Certe misure di prevenzione fanno fatica ad essere implementate perché poi si pensa e si spera sempre che il terremoto non arrivi. Però poi è una cosa che puntualmente arriva, perché è solo questione di tempo. Questo è l'aspetto critico.
Il consiglio sarebbe dunque quello di spostarsi da quel punto perché tanto prima o poi succede
Sì. Ovviamente ci sono zone come il Giappone dove non è possibile spostarsi da nessuna parte, perché il suolo giapponese è altamente sismico dappertutto. Però hanno strutture che resistono a magnitudo eccezionali. Quindi loro rappresentano il nostro punto di riferimento. Quindi sì, da un lato si può considerare l'idea di spostarsi, dall'altra invece di costruire in maniera più adeguata e far si che le strutture non cadano durante un terremoto. Che restino comunque agibili dopo un terremoto, che è il secondo aspetto. Il primo è che non cadano, perché così non uccidono le persone, il secondo è che restino agibili perché altrimenti si creerebbero comunque dei danni che avrebbero delle ripercussioni economiche enormi.
Nello studio avete indicato che poiché i due eventi di Kahramanmaras hanno rotto due diverse faglie, il secondo terremoto di magnitudo 7.6 può essere classificato “scossa principale secondaria su una faglia diversa”. Cosa significa esattamente?
In questo caso si tratta più di gergo sulla terminologia tecnica. Non c'è niente di così sbagliato se uno lo chiama scossa di assestamento o altro. Siamo andati più a puntualizzare sull'aspetto terminologico, perché il secondo evento è stato di magnitudo 7.6 e quindi più piccolo del 7.8, con una magnitudo molto simile a quella principale. Questo è il primo punto. Il secondo è che ha attivato il sistema di faglia che era diciamo nella zona limitrofa, quindi non si è trattato di un terremoto innescato nello stesso segmento, si è rotto un altro segmento di quella zona di faglia, una zona a fianco. Ci sono chiare evidenze che c'è stata una ridistribuzione dello stress e ha fatto sì che anche quella faglia partisse. Il secondo evento è partito soltanto 9 ore dopo il primo, è una chiara evidenza che in generale l'intera area era a uno stress critico. Questo ha fatto sì che il primo evento partisse, poi hai scaricato parte dello stress nella zona limitrofa e dopo 9 ore è partito l'altro. Quindi sostanzialmente ha dato l'ultima spinta, piccola, a una zona che era già comunque a un livello critico di stress. E questo ha creato la tempesta perfetta. Dopo un terremoto ne è partito un altro grosso in una zona limitrofa, ciò ha determinato che l'area coinvolta dal sisma è stata enorme, considerando la magnitudo. I terremoti sono avvenuti in due sistemi di faglia relativamente distanti fra di loro, qualche decina di chilometri, e questo ha fatto sì che l'intera area coinvolta si è allargata di molto, a causa dei due eventi.
Pensate possa esserci nell'imminenza il rischio di una scossa ancora più forte di quella principale che si è verificata il 6 febbraio?
Purtroppo non possiamo prevedere i terremoti in maniera deterministica, quindi non possiamo dire se ci sarà un terremoto. Si stanno facendo degli studi in questo momento, stanno mettendo anche delle nuove stazioni per vedere se queste faglie stanno rilasciando lo stress dove la rottura si è fermata. Probabilmente ne capiremo di più nelle prossime settimane. È ovvio che ci sono zone limitrofe, come per esempio la continuazione della East Anatolian Fault, che continua verso Sud, verso quella che è chiamata Dead Sea Fault. Quella zona è altamente sismica. Noi abbiamo provato a puntualizzare che anche quella zona è ad alto rischio e bisogna tenere in considerazione questo aspetto. Sapere se il terremoto avverrà domani, fra un mese, o fra 10 anni questo non lo sappiamo.