Spray nasale anti Alzheimer riduce declino cognitivo e danno cerebrale in test di laboratorio
Ricercatori italiani sono riusciti a contrastare il deterioramento cognitivo e il danno cerebrale in topi affetti dalla forma murina del morbo di Alzheimer, grazie a un farmaco somministrato attraverso uno spray nasale. Si tratta di un risultato estremamente significativo per diverse ragioni. Innanzitutto le opzioni terapeutiche per la principale forma di demenza al mondo sono poche e ritenute non particolarmente efficaci, dato che offrono i migliori risultati (comunque limitati) nella fase precoce della patologia neurodegenerativa. Ad esempio l'anticorpo monoclonale Donanemab, recentemente approvato, può rallentare del 35 percento il declino cognitivo se somministrato nella fase iniziale. Un risultato considerato storico, ma chiaramente non siamo innanzi a una vera e propria cura.
Una caratteristica significativa del trattamento sperimentale risiede nel fatto che non prende di mira le placche di beta-amiloide o i grovigli di tau, le proteine “appiccicose” associate all'Alzheimer che si accumulano progressivamente nel cervello dei pazienti. Amiloide e tau non sono universalmente riconosciute come bersagli terapeutici “diretti” da privilegiare per combattere la demenza, alla luce dei risultati contrastanti degli studi clinici. In altri termini, non sempre attaccare queste proteine garantisce un rallentamento del declino cognitivo e degli altri sintomi associati all'Alzheimer. Il nuovo percorso terapeutico, basato sull'inibizione dell'enzima cerebrale S-aciltransferasi (zDHHC) attraverso uno spray nasale, potrebbe offrire migliori opportunità.
Chiaramente i risultati sono stati ottenuti su modelli murini e i topi non sono esseri umani, inoltre il farmaco utilizzato non è considerato sicuro per l'applicazione clinica (sull'uomo); ciò nonostante sono state gettate le basi per mettere a punto alternative valide da poter sperimentare anche sulle persone, in futuro. Già si parla infatti di nuovi approcci basati su proteine ingegnerizzate e oligonucleotidi in grado di colpire questo enzima, strettamente associato alla neurodegenerazione nei pazienti con deceduti con Alzheimer.
A rallentare il declino cognitivo e il danno cerebrale in topi affetti dalla forma murina dell'Alzheimer è stato un team di ricerca italiano guidato da scienziati dell'Università Cattolica di Roma e della Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” IRCCS di Roma, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Università di Catania. I ricercatori, coordinati dai professori Claudio Grassi e Salvatore Fusco, si sono concentrati sull'enzima cerebrale S-aciltransferasi (zDHHC) poiché da precedenti studi era emersa una stretta correlazione con l'Alzheimer. Nello specifico, nel cervello di pazienti deceduti con la patologia sono state riscontrate concentrazioni elevate di questo enzima, inoltre maggiori erano i suoi livelli e peggiori erano i sintomi della demenza, come perdita di memoria, problemi di linguaggio, orientamento e così via. Pertanto si tratta di un bersaglio terapeutico promettente.
Come spiegato dagli autori dello studio, l'enzima S-aciltransferasi gioca un ruolo fondamentale in una reazione chiamata S-palmitoilazione, la cui funzione è associata anche nell'accumulo delle sopracitate proteine appiccicose nel tessuto cerebrale associato all'Alzheimer. Questo processo è stato osservato in particolar modo nel declino cognitivo legato a malattie metaboliche come il diabete di tipo 2, spiegano gli autori dello studio. “In questo nuovo lavoro abbiamo dimostrato che, durante le prime fasi della malattia di Alzheimer, l’insorgenza dell’insulino-resistenza cerebrale provoca nel cervello un’aumentata espressione dell’enzima zDHHC7 che determina, a sua volta, un incremento della S-palmitoilazione di proteine importanti per la regolazione delle funzioni cognitive, cui si associa un accumulo della proteina beta-amiloide”, ha specificato in un comunicato stampa il professor Fusco.
Da qui l'idea di colpire l'enzima attraverso un farmaco ad hoc e l'ingegneria genetica nei topi affetti da Alzheimer murino, per verificarne i possibili benefici in termini di deterioramento cognitivo e danno cerebrale. I risultati sono stati molto positivi. “I nostri risultati mostrano che nei modelli animali della malattia di Alzheimer, sia l'inibizione farmacologica che quella genetica della proteina S-palmitoilazione possono contrastare l'accumulo di proteine dannose nei neuroni e ritardare l'insorgenza e la progressione del declino cognitivo”, ha spiegato la dottoressa Francesca Natale, autrice principale dello studio.
Il farmaco utilizzato, chiamato 2-bromopalmitato, non è considerato sicuro per l'utilizzo nell'uomo, tuttavia il bersaglio terapeutico potrà essere colpito con altre soluzioni ageduate. Ci vorrà comunque del tempo prima di arrivare a eventuali applicazioni cliniche, ma una strada molto promettente è stata tracciata. I dettagli della ricerca “Inhibition of zDHHC7-driven protein S-palmitoylation prevents cognitive deficits in an experimental model of Alzheimer's disease” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PNAS.