video suggerito
video suggerito

Segnali dell’Alzheimer 18 anni prima della diagnosi, esperto spiega risultati e impatto dello studio

Uno studio cinese pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica New England Journal of Medicine ha determinato che i segni dell’Alzheimer possono essere rilevati con ampio anticipo prima del declino cognitivo e della diagnosi di demenza. Fanpage.it ha intervistato il professor Andrea Fuso, esperto di neurodegenerazione, per commentare i risultati e le possibili applicazioni di questa ricerca.
Intervista a Prof. Andrea Fuso
Professore Associato di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza Università di Roma
A cura di Andrea Centini
135 CONDIVISIONI
Immagine

Come indicato dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), attualmente vi sono al mondo oltre 55 milioni di persone affette da demenza e ogni anno vengono fatte circa 10 milioni di nuove diagnosi. La forma principale di questo insieme di condizioni, caratterizzate dal declino cognitivo, è il morbo di Alzheimer, che interessa fino al 70 percento dei casi rilevati. Ad oggi non esiste una cura e i pochi farmaci approvati e in sperimentazione sembrano essere parzialmente efficaci solo quando vengono somministrati nella fase precoce, rallentando la progressione della malattia.

Proprio per questo motivo poter cogliere i segnali della neurodegenerazione prima che si manifestino i sintomi clinici può rappresentare un aiuto estremamente prezioso per i pazienti, anche perché i meccanismi coinvolti non sono ancora pienamente compresi. Un nuovo studio condotto in Cina ha determinato che i segnali della malattia possono iniziare a essere colti già 18 anni prima che venga effettuata la diagnosi di Alzheimer, legata anche a test che accertano perdita della memoria, difficoltà nel linguaggio, problemi di orientamento e altri fattori che indicano un deterioramento della cognizione. Per capire meglio quali sono questi segnali precoci, come si presentano e quale impatto possono avere sul trattamento della patologia Fanpage.it ha intervistato il professor Andrea Fuso, docente di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale dell'Università Sapienza di Roma. Ecco cosa ci ha raccontato.

Professor Fuso, un recente studio cinese ha rilevato che i segnali dell'Alzheimer diventano visibili già 18 anni prima della diagnosi di demenza, comparendo in una sequenza definita fino a sfociare nel declino cognitivo. Ci spieghi cosa significa e perché questi segni – come la presenza di beta amiloide, tau e neurofilamento – si manifesterebbero secondo questo schema. Di cosa si tratta esattamente?

Il gruppo di ricerca cinese ha condotto uno studio analizzando per 20 anni, a intervalli di 2-3 anni, un numero elevato di soggetti sani, misurando vari parametri e biomarcatori associati alla malattia di Alzheimer. Alla fine dello studio hanno confrontato i dati dei soggetti che avevano sviluppato Alzheimer rispetto a quelli rimasti cognitivamente sani. Secondo i dati osservati da questo studio, recentemente pubblicato sulla autorevole rivista New England Journal of Medicine, la divergenza dei marcatori (ovvero la loro maggiore presenza in quelli che poi svilupperanno l’Alzheimer) comincia circa 18 anni prima della diagnosi definitiva di malattia.

Tali marcatori variano in questa sequenza: 18 anni, aumento della proteina beta-amiloide nel fluido cefalorachidiano (liquor); 14 anni, aumento del peptide amiloide formato da 42 aminoacidi rispetto a quello formato da 40 aminoacidi (il primo si considera il più dannoso perché aggrega); a 11 anni, aumento della proteina Tau iperfosforilata, sempre nel liquor; segue a 10 anni un aumento di Tau totale; a 9 i neurofilamenti formati dall’aggregazione di Tau sono presenti nel liquor, indicando danno neuronale; un principio di atrofia è rilevabile tramite RMN a 8 anni; infine, a 6 anni dalla diagnosi compaiono i segni di declino cognitivo moderato. Dopo lunghi anni di dibattiti circa il ruolo predominante di amiloide o tau, negli ultimi tempi la comunità scientifica sembra concorde con questa dinamica che confermerebbe la produzione e accumulo di amiloide come precedente e “potenziante” le altre alterazioni. Non bisogna però dimenticare che la malattia di Alzheimer è una patologia multifattoriale in cui diversi meccanismi molecolari (amiloide, Tau, ma anche neuroinfiammazione, danno ossidativo ed altri) si influenzano a vicenda.

Il primo segnale a comparire è proprio la presenza di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale. Le placche di questa proteina “appiccicosa” sono tra i principali segni associati all'Alzheimer, ma non sono presenti in tutti i pazienti. Com'è possibile? E perché continua a essere il bersaglio principale dei farmaci?

Alcuni pazienti non presentano estesi depositi di amiloide così come alcuni soggetti che li presentano non soffrono di declino cognitivo associabile ad Alzheimer. Questi casi sono probabilmente dovuti alla natura multifattoriale cui accennavo prima e comunque rappresentano un numero limitato di casi. È naturale che il grosso della ricerca si concentri sul fenotipo più diffuso e quindi sull’amiloide che, come abbiamo visto, sembra essere il primo segno di patologia.

Al tempo stesso, appare oggi evidente come non sia vincente una strategia mirata alla riduzione della sola amiloide o di uno solo degli altri fattori coinvolti (approcci che si stanno rivelando poco efficaci) mentre si dovrebbe punire ad un approccio terapeutico a sua volta multifattoriale.

Come fanno la beta amiloide e la proteina tau a sfociare nella neurodegenerazione?

I depositi di amiloide extracellulare (placche senili) e gli aggregati di tau intracellulari (intrecci neurofibrillari) alterano la funzionalità dei neuroni che vanno così incontro a degenerazione con conseguente morte neuronale, deficit cognitivi e successiva atrofia cerebrale.

L'andamento della neurodegenerazione emerso dallo studio cinese era già stato osservato nei casi di Alzheimer ereditario, mentre adesso è stato visto anche nella forma sporadica, quella più diffusa e che colpisce decine di milioni di persone nel mondo. Cambierà qualcosa nell'approccio alla malattia dopo questa ricerca?

Purtroppo temo di no. Lo studio cinese ha il grosso valore di aver analizzato un numero molto elevato di soggetti, ma di fatto ha solo confermato dati che erano già noti.

Conoscendo le lunghissime tappe che portano alla neurodegenerazione, potrebbe essere possibile arrivare a test diagnostici per tutti al fine di favorire la prevenzione?

Insieme alla ricerca di una cura, molti degli sforzi della comunità scientifica si incentrano proprio sullo sviluppo di nuovi e precoci biomarcatori, fondamentali per anticipare la diagnosi ed intervenire in tempi rapidi. Sicuramente non è pensabile utilizzare i marcatori analizzati nello studio cinese in quanto non è possibile applicare analisi su liquor a livello di popolazione. Le speranze sono riposte soprattutto nello sviluppo di biomarcatori analizzabili nel sangue o tramite tecniche di imaging.

I (pochi) farmaci approvati contro l'Alzheimer sembrano essere efficaci se somministrati nella fase precoce nella condizione, riuscendone a rallentare la progressione. Secondo lei arriveremo a farmaci veramente efficaci contro la neurodegenerazione? Quali sono le sperimentazioni più promettenti al riguardo?

L’efficacia dei farmaci attuali è veramente molto limitata, purtroppo. La mia impressione è che l’approccio multifattoriale sia ancora troppo poco perseguito. Sono sicuramente di parte, in quanto rientra nell’ambito delle ricerche da me condotte, ma guardo con molto interesse ad uno studio clinico australiano, appena iniziato, volto a studiare la possibile efficacia di un approccio epigenetico (metilazione del DNA), che ha le caratteristiche di poter agire su più meccanismi associati alla malattia.

Ci spieghi

Il mio gruppo di ricerca si occupa ormai da una ventina di anni di studiare il ruolo di meccanismi epigenetici in modelli di Alzheimer. In particolare il ruolo della metilazione del DNA. Infatti è noto che con l’invecchiamento ed in particolare nella neurodegenerazione (anche se non in tutti i soggetti) si ha una riduzione dei livelli di metilazione. Questa modificazione del DNA, come altri fattori epigenetici, ha il ruolo di modulare il livello di espressione di un gene (ovvero le quantità di proteina prodotta) senza alterare la sequenza del DNA stesso. I nostri studi hanno dimostrato che in modelli preclinici di Alzheimer, modulando il potenziale di metilazione possiamo ridurre o aumentare la gravità dei sintomi attraverso la regolazione di specifici processi molecolari. L’aspetto più interessante di questo approccio è che la metilazione non è correlata ad un solo marcatore dell’Alzheimer, ma agisce su più fronti: amiloide, Tau, neuroinfiammazione, risposta antiossidante. Inoltre è coinvolta nella sintesi di precursori dei neurotrasmettitori. Alcuni meccanismi osservati nei modelli preclinici li abbiamo potuti verificare anche in campioni ottenuti da pazienti Alzheimer.

Lo studio australiano appena iniziato vuole valutare l’effetto della S-adenosilmetionina, una molecola endogena che funge da donatore di gruppi metilici e sulla quale abbiamo appunto condotto la maggioranza delle nostre ricerche, nello sviluppo della malattia di Alzheimer in soggetti con declino cognitivo allo stadio iniziale. Spero che i risultati dello studio clinico siano interessanti quanto promettono quelli preclinici e sono in contatto con i colleghi australiani per una eventuale collaborazione.

Secondo un recente studio italiano Alzheimer e Parkinson potrebbero essere la duplice manifestazione di un'unica malattia, dato che le malattie condividono alcune disfunzioni. Cosa ne pensa?

Alzheimer e Parkinson presentano alcune alterazioni molecolari comuni, ma si manifestano poi come due malattie distinte, sia come aree cerebrali coinvolte sia come tipo di alterazioni. Se parliamo delle cause primarie della patologia, ancora non ben identificate, allora è plausibile che non solo queste due, ma anche altre patologie neurodegenerative, condividano dei meccanismi comuni.

Secondo lei, un domani, grazie all'editing genetico potrebbero essere prevenuti casi di demenza? Vengono in mente le varianti genetiche predisponenti come l'APOE4

Nonostante il coinvolgimento di APOE4, questo rappresenta solo una percentuale di rischio nella patologia, quindi dubito che un intervento di editing potrebbe essere risolutivo nei casi di Alzheimer sporadico. Certo, le nuove tecnologie di editing, ad esempio quelle basate sulla tecnica della CRISPR/CAS9, permettono interventi più mirati e sicuri, ma resta il problema di come accedere efficacemente alle cellule del sistema nervoso. Ritengo che l’approccio farmacologico e preventivo rappresenti ancora l’obiettivo più perseguibile.

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
135 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views