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Rischio di Alzheimer superiore nei figli di madri con perdita della memoria: lo studio

Un team di ricerca statunitense ha determinato che i figli di madri con i sintomi della demenza – come la perdita della memoria – hanno un rischio superiore di sviluppare l’Alzheimer. Le possibili cause e i potenziali benefici della scoperta.
A cura di Andrea Centini
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Il rischio di Alzheimer, la più comune forma di demenza al mondo, ha un legame genetico più forte con la madre che con il padre. I figli delle donne che sviluppano i sintomi della malattia – come la perdita della memoria – a qualsiasi età, infatti, hanno un rischio superiore di ammalarsi. Per quanto concerne i padri, tale associazione emerge solo se il genitore sviluppa la forma precoce dell'Alzheimer, ovvero prima dei 65 anni. È quanto emerso da un nuovo, approfondito studio che ha messo in correlazione la storia di demenza nei genitori con quella dei figli. La forte associazione con la madre, secondo gli esperti, potrebbe essere legata ai mitocondri, gli organelli che fungono da centrale energetica per le cellule e che vengono ereditati solo dalla madre, ma al momento si tratta solo di speculazioni. La scoperta potrebbe comunque portare a nuove conoscenze sulla malattia e a diagnosi precoci in grado di rallentare la progressione della neurodegenerazione, ad oggi incurabile.

A determinare che il rischio genetico di ammalarsi di Alzheimer è più fortemente legato alla madre che al padre è stato un team di ricerca statunitense guidato da scienziati dello Studio sull'invecchiamento del cervello di Harvard e del Dipartimento di radiologia del Massachusetts General Hospital, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi di vari istituti. Fra quelli coinvolti il Vanderbilt Memory and Alzheimer's Center dell'Università Vanderbilt, il Dipartimento di Neurologia e Scienze Neurologiche dell'Università di Stanford e il Dipartimento di Neurologia del Brigham and Women's Hospital. I ricercatori, coordinati dal professor Hyun-Sik Yang, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver analizzato il cervello di oltre 4.400 persone coinvolte nello studio Anti-Amyloid Treatment in Asymptomatic Alzheimer, uno studio clinico di Fase 3 nel quale viene indagata l'efficacia di un farmaco nel rallentare la perdita di memoria, le alterazioni comportamentali e altri sintomi caratteristici del declino cognitivo. È stato dimostrato che prima vengono somministrati i trattamenti terapeutici, maggiori sono i risultati in termini di progressione della malattia. Un anticorpo monoclonale della casa farmaceutica Ely Lilli, ad esempio, rallenta la demenza del 35 percento se infuso allo stadio iniziale della malattia.

I partecipanti allo studio, con un'età compresa tra i 65 e gli 85 anni (età media 71,3 anni), in maggioranza donne (59,3 percento) e di razza bianca, provenivano da diversi Paesi, tra i quali Stati Uniti, Australia e Giappone. Al basale avevano tutti una cognizione normale e non presentavano sintomi di demenza. Durante il periodo di follow-up sono stati sottoposti al test standardizzato “Mini-Mental State Examination” per verificare l'insorgenza della demenza e a scansioni cerebrali attraverso la tomografia a emissione di positroni (PET), per determinare la presenza di beta-amiloide nel cervello. L'accumulo di questa "proteina appiccicosa" – assieme ai grovigli di proteina tau – è infatti fortemente associato alla neurodegenerazione e al morbo di Alzheimer. I dati clinici sono stati raccolti tra il 2014 e il 2017 e analizzati tra il 2022 e il 2023. Dall'incrocio con quelli dei genitori è emersa la correlazione tra il rischio superiore di sviluppare l'Alzheimer e la presenza della malattia nella madre dei partecipanti.

È stato dimostrato che i partecipanti con una madre con una storia di perdita di memoria avevano un rischio superiore di sviluppare la malattia di Alzheimer rispetto alle persone con un padre affetto dalla condizione (a meno che non avesse manifestato i sintomi prima dei 65 anni). Nel cervello dei partecipanti con una madre che si era ammalata di Alzheimer i ricercatori hanno trovato una concentrazione superiore di beta-amiloide neocorticale, così come in quello di chi aveva un padre affetto da demenza a esordio precoce. Questa correlazione superiore con la storia materna, come spiegato in un articolo pubblicato su The Conversation dal dottorando in Neuroscienze Rahul Sidhu dell'Università di Sheffield, potrebbe essere legata alla disfunzione dei mitocondri.

“I mitocondri sono strutture che forniscono energia all’interno delle nostre cellule. Questi vengono ereditati solo dal lato materno. I mitocondri possiedono un loro DNA, che può includere mutazioni che ne causano il malfunzionamento. Ricerche precedenti hanno già dimostrato che la disfunzione dei mitocondri è associata alla malattia di Alzheimer”, spiega lo studioso. “Il cervello è un organo affamato di energia, che assorbe circa il 20 percento dell'energia del corpo . Quindi non sorprende che la disfunzione nei mitocondri possa portare a un deterioramento cognitivo e potenzialmente al morbo di Alzheimer”, ha chiosato l'esperto.

Precedenti indagini avevano determinato la storia materna di Alzheimer può predisporre i figli a un accumulo superiore di beta-amiloide, a un metabolismo cerebrale meno efficiente e a una riduzione nel volume della materia grigia. Il nuovo studio evidenzia che la malattia di Alzheimer potrebbe avere un significativo fondamento genetico, un dato prezioso che potrebbe aiutare gli scienziati a identificare precocemente le persone che hanno un maggior rischio di ammalarsi. “Alla luce di queste scoperte, i prossimi passi potrebbero essere determinare se il DNA della madre, in particolare il cromosoma X stesso, influenzi lo sviluppo della malattia. Se gioca un ruolo, allora i ricercatori potrebbero avere un bersaglio migliore per il trattamento”, ha spiegato il dottor Sidhu. I dettagli della ricerca “Parental History of Memory Impairment and β-Amyloid in Cognitively Unimpaired Older Adults” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica JAMA Neurology.

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