Questa tecnica può invertire il processo di invecchiamento e combattere i danni dell’età
L’età può essere solo un numero, ma porta con sé un insieme di cambiamenti fisici e biologici indesiderati, dalla fragilità ossea alla perdita di forza e massa muscolare, a un più alto rischio di malattie cardiovascolari e cancro. La ricerca di un modo per riuscire a rallentare o invertire i normali processi di invecchiamento costituisce da sempre un sfida per la scienza, che oggi ha aperto le porte ad alcune tecnologie emergenti che potrebbero rappresentare una possibile rivoluzione per il futuro della medicina sperimentale. Un team americano di scienziati, in particolare, ha dimostrato di poter controllare in modo sicuro ed efficace il processo di invecchiamento nei topi, riportando indietro il loro orologio biologico e ripristinando in parte alcuni cambiamenti che si verificano nelle cellule mature.
In un nuovo studio, pubblicato su Nature Aging, i ricercatori hanno sperimentato varie combinazioni di riprogrammazione cellulare, tramite quella che è nota come induzione transitoria dell’espressione genica di quattro fattori di trascrizione – Oct4, Sox2, Kfl4 e c-Myc – conosciuti anche come fattori Yamanaka dal nome dello scienziato giapponese Premio Nobel nel 2012 e pioniere della tecnica nelle staminali. Questo stesso approccio, utilizzato da Yamanaka per trasformare le cellule adulte in staminali, è stato impiegato per “riprogrammare parzialmente” le cellule adulte e riportarle a uno stato più giovane, senza che però tornassero allo stadio di staminali. Pertanto, una sua applicazione a un numero sufficiente di cellule potrebbe potenzialmente far sembrare più giovane l’orologio biologico di un intero organismo.
Per verificare questa ipotesi, gli studiosi del Laboratorio di espressione genica del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, in California, hanno testato diversi regimi di ringiovanimento cellulare in topi sani mentre invecchiavano, osservando la risposta al trattamento con fattori Yamanaka in tre gruppi di animali, a seconda dell’età: il primo gruppo è stato trattato per un mese quando aveva 25 mesi (equivalenti a circa 80 anni negli esseri umani) mentre il secondo e il terzo gruppo sono stati trattati a lungo termine, rispettivamente dai 15 ai 22 mesi (equivalenti a 50-70 anni nell’uomo) e dai 12 ai 22 mesi (35-70 anni nell’uomo).
I topi trattati per un solo mese non hanno mostrato alcun segno di inversione dell’invecchiamento, ma i due gruppi trattati a lungo termine hanno dato prova di ringiovanimento, senza alcun aumento del rischio di cancro o altri problemi di salute. I ricercatori hanno anche osservato che i tessuti dei reni e della pelle di questi animali erano “ringiovaniti”, implicando una riduzione dell’espressione dei geni che causano infiammazione, morte cellulare e risposta allo stress. La pelle è stata persino in grado di proliferare di più e di cicatrizzare di meno, l’opposto di ciò che generalmente accade in età avanzata. Inoltre, gli orologi epigenetici degli animali, una misura del livello di metilazione del DNA attribuito all’invecchiamento, sembravano essere tornati indietro.
“Oltre ad affrontare le malattie legate all’età, questo approccio può fornire alla comunità biomedica un nuovo strumento per ripristinare la salute dei tessuti e dell’organismo, migliorando la funzione cellulare e la resilienza in diverse situazioni patologiche, come le malattie neurodegenerative – ha affermato a Juan Carlos Izpisua Belmonte, coautore senior dello studio e biologo dello sviluppo del Salk Institute – . La tecnica si è dimostrata sicura ed efficace, rallentando l’invecchiamento in topi sani”.
Anche se il giorno in cui questo approccio potrà aiutare gli esseri umani a scongiurare alcuni degli aspetti peggiori dell’invecchiamento e rappresentare una “fonte della giovinezza” umana è probabilmente ancora lontano, la tecnica suggerisce la possibilità di poter ripristinare e ringiovanire la funzione di alcuni tessuti, come spiegato in un commento di accompagnamento alla ricerca dai ricercatori Arianna Markel e George Daley del Boston Children’s Hospital, che non sono stati coinvolti in lo studio. “È particolarmente degno di nota il fatto che la riprogrammazione parziale provochi con successo cambiamenti sistemici trascrittomici, metabolomici e lipidomici e influisca sull’orologio epigenetico – hanno evidenziato gli studiosi – . Inoltre, l’osservazione di questi risultati in un modello murino che invecchia normalmente fornisce ulteriori prove che questo approccio possa essere benefico oltre gli stati di malattia”.