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Perché sempre più persone si ammalano di Alzheimer, la neurologa: “Stiamo provando un metodo per scoprirlo prima”

Si stima che entro il 2050 le persone con demenza in Italia saranno circa 2,3 milioni, quasi il doppio di quelli attuali. La forma più comune è quella determinata dalla malattia di Alzheimer. Tra le cause c’è l’invecchiamento della popolazione generale e alcuni fattori modificabili, ma in futuro la diagnosi precoce potrebbe fare la differenza.
Intervista a Federica Agosta
Professoressa di Neurologia presso l'Università Vita-Salute San Raffaele
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Nel mondo 55 milioni di persone soffrono di demenza, la forma più spesso diagnostica è quella causata dal malattia di Alzheimer, una malattia neurodegenerativa che causa la morte progressiva delle cellule nervose. Le persone con demenza di Alzheimer iniziano ad avere problemi di memoria fino a dimenticare il volto dei loro familiari e ad avere difficoltà anche a svolgere le azioni quotidiane più semplici. Vi lasciamo qui un approfondimento sulle differenze tra demenza e Alzheimer.

Oggi, solo in Italia circa un milione e mezzo di persone è affetto da demenza (di cui 500.000 con malattia di Alzheimer), ma i casi continuano ad aumentare di anno in anno. Si stima che entro il 2050 le persone con demenza saranno circa 2,3 milioni. Sebbene non esista ancora un farmaco in grado di curare l'Alzheimer, la ricerca medica sta compiendo importanti passi avanti per bloccare quella che è stata già definita l'epidemia silenziosa del terzo millennio.

La professoressa Federica Agosta, docente di Neurologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, è a capo di un team di ricercatori che sta lavorando con gli algoritmi per allenarli a riconoscere i segnali della malattia molto tempo prima che si manifesti, anche con diversi anni di anticipo. A Fanpage.it ha fatto il punto sul problema e i possibili scenari futuri.

Federica Agosta, group leader dell'Unità di Neuroimaging delle malattie neurodegenerative dell'IRCCS Ospedale San Raffaele e professoressa associata di Neurologia presso l'Università Vita-Salute San Raffaele
Federica Agosta, group leader dell'Unità di Neuroimaging delle malattie neurodegenerative dell'IRCCS Ospedale San Raffaele e professoressa associata di Neurologia presso l'Università Vita-Salute San Raffaele

Alcuni parlano di epidemia di Alzheimer. Quanto è reale questo aumento e quanto dipende da un miglioramento delle diagnosi?

Entrambi le cose sono reali. Mi spiego meglio: bisogna considerare che il principale fattore di rischio della malattia di Alzheimer è l'età, quindi è chiaro che in un contesto di invecchiamento della popolazione generale si verifichi necessariamente un aumento dei casi. Da una parte è una brutta notizia, certo, ma dall'altra l'allungamento dell'età media è un dato positivo, significa che sopravviviamo più a lungo, anche grazie ai progressi della medicina.

E invece com'è cambiata la diagnosi?

Fino a qualche anno fa la diagnosi della malattia di Alzheimer era puramente clinica, ovvero si basava sui sintomi mostrati dal paziente quando già la malattia si era manifestata. Oggi invece possiamo utilizzare biomarcatori che ci permettono di rilevare le alterazioni a carico di due proteine, la beta-amiloide e la tau, che si accumulano nel cervello causando neurodegenerazione, ovvero dando il via al processo che poi porta ai sintomi della malattia di Alzheimer. Questi strumenti ci permettono di effettuare diagnosi precoci molto più facilmente rispetto a prima.

Cosa possiamo fare per contrastare questa progressiva escalation dei casi?

Oltre all'età, su cui ovviamente non possiamo agire, diversi fattori di rischio della malattia di Alzheimer sono modificabili. Si stima che in media il 35% del rischio di ammalarsi è dato da fattori modificabili. Ci riferiamo a tutte quelle cose che possiamo modificare.

Ad esempio cosa possiamo modificare?

Rientrano tra queste l'alimentazione e l'obesità, uno stile di vita sedentaria, la sordità nell'anziano, ma anche una condizione di isolamento sociale o una vita cognitiva poco attenta. Ecco perché negli ultimi anni si sta investendo su un tipo di prevenzione che punti a correggere questi fattori di rischio.

Sappiamo che per poter trattare l'Alzheimer è fondamentale diagnosticarlo prima che si manifestino i sintomi. Perché è così importante?

La malattia di Alzheimer è la conseguenza di una cascata di eventi, che non si verificano tutti insieme, ma progressivamente. Sono eventi che conosciamo abbastanza bene, il primo elemento è l'alterazione della proteina beta-amiloide. Dopo si altera anche la proteina tau e ancora dopo inizia il processo di neurodegenerazione.

Questa cascata di eventi non si concentra in pochi mesi, ma è spalmata in 20 anni. Quindi intercettare in modo precoce l'inizio di questo processo è l'unico modo che abbiamo per bloccare tutto l'iter della malattia, spezzando l'effetto domino tipico dell'Alzheimer.

Il suo lavoro sugli algoritmi, qualora venissero approvati, a chi si rivolgerebbe?

Oggi l'uso degli algoritmi in ambito medico non è ancora regolamentato, ma potrebbe migliorare la prevenzione delle persone a rischio, come chi ha familiarità per la malattia o chi avverte un peggioramento nella percezione delle proprie prestazioni cognitive. Non siamo nelle condizioni di dover pensare a un piano di screening di massa, ma avrebbe sicuramente senso prevedere programmi di questo tipo per le persone a rischio.

Come gli algoritmi potrebbero migliorare la diagnosi precoce?

Gli algoritmi di intelligenza artificiale utilizzano grandi quantità di dati, clinici, cognitivi, biologici, di neuroimmagine. Abbiamo visto che possiamo allenarli in modo tale che riescano a riconoscere il rischio di una certa malattia attraverso l'elaborazione dei dati, con un grado di precisione maggiore di quella umana.

A questa enorme quantità di dati abbiamo aggiunto biomarcatori ematici, ovvero valori ottenibili da semplici prelievi del sangue. Questi ci dicono con estrema precisione se è presente un'alterazione delle proteine beta-amiloide e tau con un elevato grado di sicurezza. In sostanza, attraverso un prelievo del sangue identifico la persona che è portatrice della malattia con una probabilità superiore al 95%.

A che punto siamo con i farmaci per la cura?

Anche se nell'Unione Europea sono ancora in fase di valutazione, negli Stati Uniti e in altri Paesi sono già disponibili due farmaci, Lecanemab e Donanemab, che potrebbero rivoluzionare l'approccio alla malattia. Sono i primi due farmaci in grado di agire su quella cascata di eventi che causa l'Alzheimer, ma solo sul primo mattoncino della catena, ovvero quello relativo all'alterazione della proteina beta-amiloide. Per questo, la diagnosi precoce sarà fondamentale quando questi farmaci verranno introdotti anche da noi. Aspettiamo l'approvazione dei due farmaci dall'Ema.

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