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Perché scegliere una dieta vegetale può aiutarci contro la crisi dell’acqua

I cambiamenti climatici riducono le riserve d’acqua dolce e rischiamo una crisi idrica globale. Ecco perché una dieta vegetale può essere un aiuto prezioso.
A cura di Andrea Centini
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Tra gli effetti più significativi dei cambiamenti climatici è annoverata la riduzione delle riserve di acqua dolce, un fenomeno evidente già oggi – come mostra ad esempio lo stato del fiume Po – in grado di scatenare gravi eventi siccitosi. La siccità a sua volta è alla base di carestie, incendi, migrazioni di massa, diffusione di malattie, distruzione di raccolti, morie di animali e altre conseguenze nefaste che abbattono gli equilibri degli ecosistemi, la biodiversità e la qualità della nostra vita. Limitare sensibilmente le emissioni di anidride carbonica (CO2) e altri gas a effetto serra è l'unico modo che abbiamo per scongiurare un impatto ancor più catastrofico del riscaldamento globale, come appunto una crisi idrica di vasta portata. Sebbene le istituzioni continuino a temporeggiare innanzi al baratro che si avvicina, anche a causa del contesto geopolitico attuale che rende più complesso affrancarsi dai combustibili fossili, ciascuno di noi può comunque fare la differenza, adottando uno stile di vita più “verde” e in grado di ridurre la propria impronta carbonica, ovvero le emissioni di carbonio che catalizzano i cambiamenti climatici. Tra le scelte personali che si possono fare per contrastare la crisi dell'acqua vi è anche quella di abbracciare una dieta vegetariana o vegana, o comunque un modello alimentare principalmente basato su prodotti di origine non animale. Vediamo perché.

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Cos'è l'impronta idrica

Prima di elencare i benefici ambientali legati alla scelta di un dieta vegetale è doveroso indicare che cos'è l'impronta idrica. Per farlo prendiamo in prestito la spiegazione del Water Footprint Network, un'organizzazione internazionale che coinvolge aziende, associazioni e singoli individui che ha l'obiettivo di “risolvere le crisi idriche mondiali promuovendo un uso equo e intelligente dell'acqua”. Come specificato nel sito ufficiale, si tratta di una “rete globale e dinamica che guida l'innovazione e ispira i cambiamenti che tutti noi dobbiamo apportare per condividere equamente l'acqua dolce tra tutte le persone, per sostenere comunità fiorenti e la diversità della natura”. Dunque, cos'è l'impronta idrica? Semplicemente, è una misura della quantità di acqua necessaria per produrre un determinato bene o un servizio. Il Water Footprint Network spiega che qualunque cosa che usiamo, indossiamo, mangiamo, compriamo e vendiamo richiede acqua per essere realizzato; naturalmente vi sono prodotti decisamente più esigenti in termini idrici di altri. Fra essi figura la carne bovina, come evidenziato nella sezione “Galleria di prodotti” del portale. Vediamola nel dettaglio.

Quanta acqua serve per produrre il cibo che mangiamo

Come specificato dal Water Footprint Network, per produrre un solo chilogrammo di manzo (carne bovina) servono oltre 15.400 litri d'acqua, un volume enorme del quale la componente maggiore viene investita per coltivare il mangime necessario per nutrire il bestiame. L'impronta idrica della carne bovina è infatti una somma di fattori, che abbracciano dall'acqua bevuta dagli animali a quella usata per il foraggiamento, passando per quella investita nei processi di mungitura, macellazione, pulizia delle stalle e via discorrendo. Secondo lo studio “A Global Assessment of the Water Footprint of Farm Animal Products” e altre indagini condotte dal professor Mesfin M. Mekonnen e colleghi dell'Università di Twente, nei Paesi Bassi, tra il 1995 e il 2005 l'impronta idrica globale per la produzione di carne bovina si attestava a circa 800 miliardi di metri cubi per anno. Una quantità spropositata. La carne di bovino è di gran lunga la più esigente in termini di risorse di acqua, considerando che l'impronta idrica è pari 10.400 litri d'acqua per 1 kg di carne di pecora; di 6.000 litri per 1 kg di carne di maiale; di 5.500 litri per 1 kg di carne di capra e di 4.300 litri per 1 kg di carne di pollo. Anche il burro – un altro alimento di origine animale – richiede molta acqua, pari a 5.553 litri per kg di prodotto. I confronti con gli alimenti vegetali sono "impietosi". Basti infatti sapere che per produrre 1 kg di mele servono 822 litri d'acqua; per 1 kg di banane 790 litri; per 1 kg di pane 1.608 litri; per 1 kg di cavoli 237 litri; per 1 kg di cetrioli o zucchine 353 litri; per 1 kg di lattuga 237 litri; per 1 kg di mais 1.222 litri; per 1 kg di arance 560 litri; per 1 kg di pasta secca 1.849 litri; per 1 kg di pesche 910 litri; per un 1 kg di pomodori 214 litri e così via. Potete leggere l'elenco completo dei prodotti analizzati al cliccando sul seguente link. Curiosamente il prodotto più esigente in termini idrici è il cioccolato, con ben 17.196 litri per chilogrammo di prodotto.

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Acqua verde, blu e grigia

È interessante evidenziare che la quasi totalità dell'acqua impiegata per produrre un chilogrammo di carne bovina, ovvero il 94 percento, è la cosiddetta "acqua verde", in linea generale quella piovana. Il 4 percento è invece "acqua blu", prelevata dalle falde acquifere o da bacini superficiali, mentre il 2 percento è "acqua grigia", ovvero quella legata ai processi di depurazione, scarichi e mantenimento della qualità dell'acqua stessa. I principali detrattori del Water Footprint Network sottolineano che il dato degli oltre 15.400 litri d'acqua viene spesso sbandierato senza tener conto della grande quota di acqua verde. Inoltre aggiungono che gli allevamenti sono di norma localizzati nei luoghi dove c'è acqua in abbondanza (a vedere il terreno siccitoso e riarso dal sole dove sono morte migliaia di mucche in Kansas a causa di un'ondata di calore non sembrerebbe). Sebbene questo punto di vista possa essere in parte condivisibile, si dimentica un punto fondamentale della questione. La crisi idrica è legata ai cambiamenti climatici che sono catalizzati dalle emissioni di CO2. E quali industrie figurano fra quelle che hanno un maggior impatto a causa del rilascio di gas a effetto serra? Esattamente, quelle zootecniche. Nel rapporto “Meat Atlas: Facts and figures about the animals we eat 2021” è stato rilevato che venti grandi aziende produttrici di carne immettono in atmosfera più carbonio di grandi Paesi industrializzati come Francia e Germania, inoltre le cinque più grandi industrie zootecniche determinano emissioni paragonabili a quelle di una delle più grandi compagnie petrolifere al mondo. L'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura delle Nazioni Unite (FAO) stima che circa il 15 percento delle emissioni globali sia dovuto agli allevamenti di bestiame. Per far fronte a tali emissioni la Nuova Zelanda ha addirittura deciso di tassare le esalazioni e le flatulenze di mucche e pecore. Non c'è da stupirsi che, in un tale contesto, scegliere una dieta vegetale determinerebbe benefici significativi per l'ambiente. Secondo un recente studio pubblicato su PloS Climate, se tutti iniziassimo a seguire una dieta vegana si innescherebbe un blocco delle emissioni di CO2 per 30 anni. Ovviamente la scelta del modello alimentare deve essere sempre concordata con il proprio medico nutrizionista. Questi studi e dati stanno solo a indicare che seguendo una dieta principalmente basata su prodotti di origine vegetale si farebbe del bene al pianeta. Senza dimenticare i risvolti etici legati allo sfruttamento degli animali coinvolti nella zootecnica e le conseguenze della carne rossa sulla nostra salute.

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