Perché proteggere la biodiversità salverà anche noi, seminatori di morte e distruzione
In questi giorni a Montreal, in Canada, si sta tenendo la XV Convenzione sulla diversità biologica o più semplicemente COP15, una delle tre importanti convenzioni – assieme a quelle contro la desertificazione e i cambiamenti climatici – firmate da circa 200 Paesi a Rio de Janeiro nel 1992, sotto l'egida delle Nazioni Unite. La COP più nota al grande pubblico è indubbiamente quella contro il riscaldamento globale, considerato la principale minaccia esistenziale per l'umanità, ma anche le altre due sono estremamente preziose. Il trattato nato per proteggere la biodiversità, l'insieme di organismi viventi che popola la Terra e i loro ecosistemi, è legata a doppio filo con la lotta al cambiamento climatico, dato che quest'ultimo sta catalizzando la scomparsa di specie. Ma se contro le emissioni di anidride carbonica (CO2) e altri gas a effetto serra si iniziano a prendere alcune timide ma significative decisioni, ancora nessuna importante misura è stata introdotta per fermare la drammatica emorragia di specie a causa nostra.
La speranza dell'ONU e dei Paesi maggiormente attivi nel tutelare la diversità biologica è che la COP15 di Montreal diventi per gli organismi viventi cioè che la COP di Parigi del 2015 è diventata sul clima. Fu in quell'occasione, infatti, che si decise di contenere l'aumento della temperatura media entro 2° C (ancor meglio 1,5° C, l'obiettivo attuale) rispetto all'epoca preindustriale; oggi ci si aspetta lo stesso rigore per tutelare la natura. In che modo? L'ONU ha indicato la via da seguire: adozione di un quadro normativo completo a tutela della biodiversità accompagnato dalle risorse per attuarlo (insomma, basta belle parole al vento e nessuna concretezza); definizione di obiettivi chiari contro lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, la frammentazione degli habitat naturali, l'inquinamento (proprio in questi giorni sono usciti i dati del rapporto “Zero Pollution” della Commissione Europea) e le pratiche agricole non sostenibili, come intere distese di palme da olio al posto della foresta vergine; messa a punto di un piano per salvaguardare le popolazioni di indigeni – veri custodi della biodiversità -; e finanziamenti atti a tutelare la natura, con l'eliminazione dei sussidi governativi che la danneggiano. Per gli esperti è inoltre fondamentale rendere area protetta almeno il 30 percento delle terre emerse e il 30 percento delle aree marine, ripristinando al contempo gli habitat naturali degradati dalla mano avida, crudele e poco lungimirante dell'essere umano.
Si tratta di obiettivi ambiziosi, ma assolutamente necessari. E le iniziative politiche per raggiungerli vanno prese subito. In questo momento ci sono infatti oltre 1 milione di specie minacciate a causa dell'essere umano. Ogni anno non solo perdiamo specie note, ma anche organismi che non abbiamo ancora scoperto, a un ritmo agghiacciante. Come spiegato a Fanpage.it dal professor Telmo Pievani, evoluzionista e filosofo della Scienza, il tasso di estinzione è migliaia di volte superiore a quello che 66 milioni di anni fa, alla fine del Cretaceo, condannò i dinosauri non aviani all'estinzione, a causa della caduta dell'asteroide Chicxulub da 10-14 km di diametro. Quell'evento catastrofico, in grado di generare onde di tsunami alte centinaia di metri capaci di viaggiare per migliaia di chilometri nell'entroterra, impiegò 300mila anni per annientare circa il 75 percento delle specie viventi sulla Terra. Noi, in soli 500 anni, secondo uno studio dell'Università delle Hawaii abbiamo annientato fino al 13 percento delle specie viventi, vale a dire 260mila organismi diversi. In soli 50 anni siamo stati in grado di abbattere il 69 percento delle popolazioni di vertebrati (anfibi, rettili, uccelli, pesci e mammiferi), in base ai dati del Living Planet Report (LPR) 2022 del WWF. Siamo in quella che gli scienziati chiamano “Sesta Estinzione di Massa” e la più grande differenza con le cinque che l'hanno preceduta (la quinta è stata quella dei dinosauri non aviani) è che non è causata da un fenomeno naturale, come una colossale eruzione vulcanica o la caduta di un asteroide gigante, ma ha come responsabile una sola specie: la nostra. Come specificato, anche la velocità con cui ci stiamo impegnando a distruggere gli altri essere viventi è sconvolgente.
Non c'è da stupirsi che durante il suo intervento introduttivo alla COP15 il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha dichiarato che l'umanità, con il suo appetito senza fondo per inseguire la crescita economica incontrollata e disomogenea si è trasformata “in un'arma di distruzione di massa”. Guterres spiega che stiamo trattando la natura come fosse una toilette e che è giunto il momento di “stringere un patto di pace”. Non solo per salvaguardare la biodiversità e l'ambiente in cui viviamo, ma noi stessi. Basti pensare agli insetti impollinatori come le api e i bombi; circa i due terzi degli alimenti freschi di cui ci nutriamo sono legati al lavorio di questi meravigliosi imenotteri. Ma li stiamo portando sull'orlo dell'estinzione con i pesticidi, la distruzione dell'habitat per far posto ad allevamenti di bestiame e monocolture. Uno studio tedesco ha calcolato che in soli 10 anni è stata abbattuta del 30 percento la biomassa degli insetti presenti nelle praterie e nelle foreste; un crollo drammatico che ha effetti a catena sulla tenuta degli ecosistemi e dei preziosi servizi che essi ci offrono. Cibo, acqua e aria pulite, un patrimonio verde che migliora la salute mentale, l'economia, la medicina, le eccellenze enogastronomiche e moltissimo altro ancora.
Per fare un esempio, un tempo gli scienziati studiavano un composto prodotto da alcune rane australiane, in grado di inibire la produzione di succhi gastrici. Era un potenziale "assist" per arrivare a un farmaco contro alcune patologie gastrointestinali, ma abbiamo fatto estinguere questi anfibi e si è persa la possibilità di proseguire la ricerca (rispettosa degli animali). Ma la scarsa lungimiranza si avverte in molti dei nostri comportamenti. La sovrappesca sta portando alla perdita degli stock ittici dai quali dipendono miliardi di persone che vivono lungo le coste e non solo. Non a caso si stima che entro il 2050 si stima che avremo nei mari e negli oceani di tutto il mondo più plastica che pesce. Non va inoltre dimenticato l'impatto della deforestazione e l'estrema urbanizzazione, che favoriscono il contatto con animali portatori di virus e altri patogeni potenzialmente in grado di scatenare un'altra pandemia come quella di COVID-19 che stiamo vivendo.
Durante la conferenza Guterres ha spiegato che ci stiamo “suicidando per procura”, perché la perdita della natura e della biodiversità “ha un costo enorme per l'umanità”. Anche l'acqua che beviamo e l'aria che respiriamo sono insozzate da sostanze chimiche, microplastiche e nanoplastiche, pesticidi e altri composti che hanno conseguenze devastanti sulla nostra salute. Ben un terzo di tutta la terra è degradato, sottolinea il segretario dell'ONU, aggiungendo che ciò rende più difficile nutrire le popolazioni in crescita (a novembre siamo diventati 8 miliardi). Guterres ha ricordato il dato del milione di specie a rischio a causa dell'uomo, con particolare riferimento alle barriere coralline e ad altri ecosistemi marini, dai quali dipende un numero enorme di persone. Ha concluso il suo discorso dicendo che è ora di dire basta con questa distruzione, perché non esiste un pianeta B sul quale andare a vivere, e dobbiamo impegnarci per salvaguardare e riparare quello che fino ad oggi abbiamo danneggiato con la nostra ingordigia. La speranza è che nei prossimi giorni, durante la COP15, verranno prese tutte le misure necessarie per iniziare questo virtuoso percorso.