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Covid 19

Perché non è l’alta carica virale a far diffondere Omicron più velocemente

Ad influenzare la velocità di trasmissione è la capacità della nuova variante di Sars-Cov-2 di eludere parte della risposta immunitaria indotta dai vaccini o dall’infezione legata a precedenti forme virali.
A cura di Valeria Aiello
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Fin da quando Omicron (B.1.1.529) è stata identificata, alla fine di novembre 2021 nella provincia sudafricana del Gauteng, le prime osservazioni epidemiologiche hanno indicato che la nuova variante del coronavirus Sars-Cov-2 è in grado di trasmettersi molto più facilmente di Delta. Questo ha permesso a Omicron di superare rapidamente le altre forme virali in circolazione e di diventare il ceppo dominante a livello globale.

Secondo i ricercatori, a determinare la maggiore velocità di diffusione non sarebbe la maggiore carica virale provocata dall’infezione, dunque il rilascio di grandi quantità di particelle virali da parte persone contagiate, ma la capacità di Omicron di eludere parte della risposta immunitaria indotta dalla vaccinazione o dall’infezione legata a varianti precedenti. Per arrivare a questa conclusione, gli studiosi hanno valutato i livelli di virus presenti nel naso e nella gola delle persone contagiate da Omicron, confrontandoli con quelli di persone contagiate da Delta. Il raffronto ha mostrato che sono le infezioni da Delta ad avere un picco di carica virale leggermente più alto di quelle da Omicron, e non viceversa.

Questo è stato evidenziato in due studi separati, entrambi pubblicati sul server prestampa MedRXiv e non ancora sottoposti a revisione paritaria, condotti rispettivamente dal team di ricerca dell’Università di Ginevra, in Svizzera, guidato dal virologo Benjamin Meyer, e da un gruppo di lavoro americano coordinato da Yonatan Grad della Harvard TH Chan School of Public Health di Boston, nel Massachusetts. Oltre ad escludere una maggiore trasmissibilità legata alla carica virale misurata attraverso l’RNA virale, Meyer e i suoi colleghi hanno anche direttamente confrontato il numero di particelle infettive presenti nei campioni analizzati, senza riscontrare differenze significative tra le infezioni causate da Omicron e da Delta.

I risultati di questi studi, ripresi in un articolo pubblicato su Nature, hanno “implicazioni per le politiche dei governi sull’isolamento dopo l’infezione” evidenziano gli studiosi. In particolare, per quanto riguarda la presenza (emersa in circa la metà dei campioni analizzati) di virus infettivo a distanza di cinque giorni dalla prima diagnosi di infezione da Omicron.

Si tratta di risultati preoccupanti – ha affermato Grad – , perché le linee guida pubblicate dai Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) consentono alle persone contagiate dal virus di porre fine al loro isolamento cinque giorni dopo essere risultate positive o aver manifestato i primi sintomi. Le linee guida specificano che le persone che sono uscite dall’isolamento devono continuare a indossare una mascherina per altri cinque giorni, ma non richiedono un test negativo per uscire all’isolamento”. I CDC, precisa Nature, non hanno risposto con alcun commento prima della pubblicazione dell’articolo.

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