Perché abbiamo i geni dei Neanderthal e come possono rendere più gravi le malattie come la Covid
Il rischio di contrarre la forma grave della COVID-19, la malattia provocata dal coronavirus SARS-CoV-2, è legato a una moltitudine di fattori, tra i quali figurano l'età, il genere (gli uomini sono più esposti), le malattie sottostanti e molto altro ancora. Diversi studi hanno evidenziato che anche il patrimonio genetico può influenzare le probabilità di ammalarsi severamente, come ad esempio una ricerca condotta dall'Università di Siena, che ha trovato un'associazione tra la Covid grave con alcune varianti dell'esoma (WES)1. Un nuovo studio coordinato da ricercatori dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, in collaborazione con i colleghi del Centro di Ricerca per le Malattie Rare Aldo e Cele Daccò, del Centro Anna Maria Astori e dello Science and Technology Park Kilometro Rosso, ha determinato che sono a rischio anche le persone portatrici di alcuni specifici geni ereditati dall'uomo di Neanderthal.
I ricercatori coordinati dal professor Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto Mario Negri, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver eseguito il sequenziamento genetico di circa 1.200 persone residenti nella provincia di Bergamo (Val Seriana), quella più duramente colpita all'inizio della pandemia nel nostro Paese. Partendo da un campione di circa 10.000 partecipanti, i ricercatori sono arrivati ad analizzare tre gruppi di persone suddivise con le seguenti caratteristiche: 400 colpite dalla COVID-19 grave; 400 dalla forma lieve e 400 non infettate dal SARS-CoV-2. Attraverso una tecnica di genotipizzazione chiamata DNA microarray, “una tecnologia in grado di leggere centinaia di migliaia di variazioni (polimorfismi) su tutto il genoma”, come indicato in un comunicato stampa dall'istituto meneghino, hanno scoperto che i portatori di un particolare combinazione di variazioni genetiche (aplotipo) era più suscettibile di sviluppare la forma severa della patologia, così come di avere più morti in famiglia a causa del patogeno pandemico.
I geni coinvolti si trovano sul cromosoma 3, sono tre e li abbiamo tutti ereditati dai nostri cugini antenati, gli uomini di Neanderthal (Homo neanderthalensis). Più nello specifico sono vestigia del “genoma di Vindija” trovato in Neanderthal vissuti 50.000 anni fa. Si tratta di CCR9 e CXCR6, “responsabili di richiamare i globuli bianchi e causare infiammazione durante le infezioni”, e del gene LZTFL1, legato alle cellule epiteliali site nelle vie respiratorie. Come spiegato dalla dottoressa Marina Noris, Responsabile del Centro di Genomica umana dell’Istituto Mario Negri, i portatori dell’“aplotipo di Neanderthal” esposti al coronavirus SARS-CoV-2 avevano “più del doppio del rischio di sviluppare Covid grave (polmonite), quasi tre volte in più il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e un rischio ancora maggiore di aver bisogno di ventilazione meccanica rispetto ai soggetti che non hanno questo aplotipo”. I ricercatori italiani hanno identificato anche altre porzioni del genoma potenzialmente associate al rischio di contrarre l'infezione e di ammalarsi gravemente, che saranno soggette ad ulteriori e approfonditi studi.
Ma concentriamoci sui geni dell'uomo di Neanderthal, regolarmente presenti nel nostro patrimonio genetico e in grado di influenzare il rischio di sviluppare o meno determinate patologie. Il fatto che li abbiamo nel nostro DNA deriva da una semplice ragione: gli uomini moderni (Homo sapiens) in passato si sono accoppiati con i Neanderthal, facendo arrivare i loro geni – generazione dopo generazione – fino ai giorni nostri. Si stima che i primi incontri avvennero circa 200mila anni fa, quando i primi uomini moderni lasciarono l'Africa e raggiunsero l'Asia e l'Europa. Qui incontrarono i Neanderthal, con i quali molto probabilmente entrarono in significativa competizione, al netto degli scambi genetici di cui sopra. Gli antropologi ritengono che fu proprio questa competizione, in associazione a fattori ambientali e demografici, a determinare l'estinzione dei nostri cugini circa 40.000 anni fa.
Si ritiene che l'incrocio tra le due specie di ominidi abbia fatto arrivare fino ai giorni nostri fino al 20 – 30 percento del patrimonio genetico dei Neanderthal, diluito nelle varie popolazioni sulla base dell'origine geografica. In media ogni essere umano moderno porterebbe dall'1 al 3 percento di questi antichi geni neanderthaliani. E non sono geni inerti. La loro presenza, infatti, è legata alla suscettibilità o meno di diverse patologie, tra le quali si annoverano il morbo di Chron, il diabete di tipo 2 e malattie autoimmuni alla stregua del Lupus. La ragione è legata al fatto che ci siamo evoluti in ambienti diversi che hanno plasmato evolutivamente tratti distintivi, come ad esempio la resistenza al freddo o magari una maggiore reattività del sistema immunitario, che oggi possono rappresentare dei vantaggi o degli svantaggi. Nel caso della COVID-19, i geni coinvolti molto probabilmente proteggevano i Neanderthal dalle infezioni, come spiegato dal professor Giuseppe Remuzzi; oggi invece possono provocare una risposta immune eccessiva. Il riferimento è alla famigerata “tempesta di citochine”, una condizione che può essere più grave dell'infezione stessa. Molti pazienti Covid hanno perso la vita proprio a causa di una reazione immunitaria esagerata. I dettagli della ricerca “A GWAS in the pandemic epicenter highlights the severe COVID-19 risk locus introgressed by Neanderthals” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica iScience.