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Ora sappiamo come Omicron viene riconosciuta dagli anticorpi sviluppati contro varianti precedenti

Le interazioni molecolari sono state descritte da un team di ricerca italiano che ha coinvolto gli studiosi dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Cnr di Avellino e dell’Università di Salerno.
A cura di Valeria Aiello
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Perché Omicron è cosi altamente trasmissibile? A cosa deve la sua capacità di eludere parte della risposta immunitaria che abbiamo sviluppato in seguito all’infezione da precedenti varianti virali o alla vaccinazione? Ma soprattutto, quante e quali sono le porzioni del virus che vengono comunque riconosciute dai nostri anticorpi? Una risposta a queste domande arriva da un team di ricerca italiano che ha approfondito lo studio della proteina Spike della variante Omicron (BA.1) del coronavirus Sars-Cov-2, indagando su quelli che sono gli effetti delle mutazioni che caratterizzano questa forma virale e come questi stessi cambiamenti vadano a influenzare il riconoscimento da parte degli anticorpi diretti contro le precedenti varianti del virus.

L’analisi, che ha coinvolto i ricercatori dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Consiglio nazionale delle ricerche di Avellino e del Dipartimento di chimica e biologia “A. Zambelli” dell’Università di Salerno, ha richiesto lo sviluppo di una procedura bioinformatica automatizzata attraverso cui gli studiosi hanno potuto simulare le mutazioni presenti a livello della proteina Spike di Omicron e quindi ottenere una serie di modelli d’interazione Spike-anticorpo che ha permesso di valutare come questa proteina virale sia riconosciuta o meno dalla risposta anticorpale prodotta dal nostro organismo contro le precedenti varianti del Covid.

Così Omicron interagisce con gli anticorpi diretti contro le vecchie varianti

Il lavoro, dettagliato in uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Molecules, ha messo chiaramente in risalto come il riconoscimento da parte degli anticorpi sia “influenzato ma non drammaticamente perturbato” dalle mutazioni presenti nella proteina Spike di Omicron. In particolare, spiegano gli autori dello studio, il lavoro ha dimostrato che diversi anticorpi già sviluppati contro le vecchie varianti “possono riconoscere anche la proteina Spike della variante Omicron” anche se con alcune differenze circa le interazioni molecolari che si possono formare.

I residui della proteina Spike di Omicron coinvolti nelle interazioni influenzate negativamente o positivamente dalle mutazioni. in blu, quelli coinvolti principalmente nella perdita di interazioni; in arancione, quelli coinvolti principalmente nel guadagno di interazioni; in grigio scuro, quelli ugualmente coinvolti nella perdita e nel guadagno di interazioni / Molecules
I residui della proteina Spike di Omicron coinvolti nelle interazioni influenzate negativamente o positivamente dalle mutazioni. in blu, quelli coinvolti principalmente nella perdita di interazioni; in arancione, quelli coinvolti principalmente nel guadagno di interazioni; in grigio scuro, quelli ugualmente coinvolti nella perdita e nel guadagno di interazioni / Molecules

Nel complesso, l’analisi ha mostrato “un equilibrio tra la perdita e il guadagno di nuove interazioni” portando gli studiosi a ritenere che i cambiamenti a livello della proteina Spike di Omicron abbiano “un impatto complessivamente modesto” sul riconoscimento da parte degli anticorpi.

Cosa rende Omicron più trasmissibile delle precedenti varianti Covid

L’approccio sviluppato dai ricercatori ha anche permesso di valutare l’impatto delle singole mutazioni della proteina Spike di Omicron nell’interazione con il recettore cellulare ACE2 che il virus utilizza per agganciare le cellule e penetrare al loro interno. “Studiando questa interazione, abbiamo evidenziato alcune differenze rispetto alla proteina Spike di varianti precedenti, offrendo una possibile interpretazione della maggiore facilità di trasmissione della variante Omicron” ha spiegato Angelo Facchiano (Cnr-Isa), responsabile dello studio assieme ad Anna Marabotti per l’Università di Salerno. Tale capacità, nello specifico, potrebbe derivare da un maggior numero di interazioni elettrostatiche tra la proteina Spike di Omicron e il recettore ACE2, sebbene la loro formazione non sia ancora completamente chiarita.

Ad ogni modo, la procedura bionformatica messa a punto dal team italiano ha comunque consentito di ottenere i primi risultati utili circa tali interazioni, proponendosi come strumento che in futuro potrà essere efficacemente messo a disposizione della comunità scientifica nel caso emergano nuove varianti di preoccupazione. Un’eventualità che, chiaramente, gli studiosi e tutti noi speriamo non sia necessaria ma che, tuttavia, rappresenterà una valida strategia per “simulare le sostituzioni di amminoacidi e dare in poco tempo una previsione degli effetti in termini di capacità delle difese immunitarie offerte dagli anticorpi già presenti nel nostro organismo di contrastare una eventuale nuova variante” hanno concluso i ricercatori.

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